Carnevale in Villa Pisani

Copia di 6944-59In occasione dell’apertura straordinaria gratuita di Villa Pisani a Stra il 9 marzo, l’associazione Villeggiare organizza una uscita con visita guidata.

Villa Pisani rappresenta uno dei complessi più importanti del Veneto; la  villa dimora di dogi, principi e imperatori affascina i visitatori per la maestosità delle sue stanze e per la ricchezza dei suoi arredi. Nel salone delle feste il grande pittore Giambattista Tiepolo ci regala una delle sue opere più importanti e ricche di fascino di tutta la sua carriera. Il parco si disvela al pubblico nella sua bellezza grazie alle architetture e alla ricchezza delle specie botaniche presenti al suo interno. All’interno del parco sarà anche possibile ammirare lo splendido labirinto vegetale, uno dei rari esempi rimasti in Europa.

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L’appuntamento è fissato all’ingresso della villa alle 9,30. La visita guidata inizierà con il piano nobile della villa posto al primo piano e proseguira con la visita al parco.

Per informazioni o prenotazioni:

mail: itinerari@villeggiare.org

Tel: 3246015920

POMERIGGI D’ARTE

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Pomeriggi d’arte 

è un’iniziativa che vuole fornire una possibilità di incontro e di condivisione di un’esperienza a persone con la passione per l’arte e lo stare insieme. Il viaggio ideale comincia a Rovigo, fra i misteri dell’Ossessione Nordica, prosegue a Ferrara con la vitalità e la luce di Matisse e si conclude a Vicenza, sull’inizio dell’estate, con una visita a Villa Valmarana ai Nani, affrescata da Giambattista e Giandomenico Tiepolo, ultimi cantori della nobiltà veneziana.

L’iniziativa coprirà l’intero periodo primaverile fino all’inizio dell’estate per chiudere insieme l’anno sociale in modo piacevole e interessante.

L’OSSESSIONE NORDICA

La nuova mostra di Palazzo Roverella cerca di ricreare lo stupore provocato alle prime biennali dall’esposizione delle opere dei pittori tedeschi, svizzeri, scandinavi. Il loro era un mondo di mistero e di antiche leggende che avevano luogo in selve oscure popolate di fate e esseri mitologici, di streghe e di incontri segreti alla luce della luna.

L’esposizione dei lavori di maestri come Böcklin e dei movimenti noti come “secessioni” lasciarono un segno indelebile nella mente e nelle opere dei giovani artisti che studiavano all’Accademia di Venezia. 

MATISSE LA FIGURA

Palazzo dei Diamanti, la splendida dimora cinquecentesca dei signori di Ferrara ospita nella primavera del 2014 alcune delle più belle opere di Henri Matisse, uno dei giganti della pittura moderna, uno dei pittori che insieme a Picasso, mutò il corso della storia dell’arte all’inizio del XX secolo, aprendo prospettive fino a quel momento sconosciute.

Vi proponiamo un viaggio nell’esplosione di vitalità e colore di un maestro della pittura, abbracciato dall’atmosfera calda e coinvolgente di Ferrara e dei suoi mattoni rossi.

VILLA VALMARANA AI NANI

Un viaggio nella leggenda e nella favola, ambientato negli anni del crepuscolo della Serenissima. Pare che il ricchissimo Giustino Valmarana, per non creare traumi psicologici all’amata figlia, la circondò di servitù di bassa statura e fece scolpire le statue del giardino a forma di nani. Nel secolo successivo la famiglia vicentina chiamò Giambattista Tiepolo, l’ultimo dei grandi della pittura veneziana per celebrare la propria gloria paragonandola a quella dei mitici guerrieri che liberarono Gerusalemme, le cui gesta furono cantate da Torquato Tasso. 

Venezia fra mito e distruzione, parte II

La prima parte dell’articolo può essere letta qui https://villeggiare.wordpress.com/2014/01/18/venezia-fra-mito-e-distruzione/

Successivamente al rischio di cui abbiamo parlato nella prima parte di questo pezzo, la nuova classe dirigente veneziana dovette rinnovare completamente la propria immagine cercando di proporre una vera e propria “renovatio urbis”, una rivoluzione urbana che avrebbe comunicato in ogni aspetto della vita cittadina il rinnovamento del potere veneziano e il cambiamento delle sue intenzioni verso i sudditi, che sarebbero passati da conquistati a beneficiati di un nuovo regime. 

Ed è soprattutto nei dipinti di Paolo Veronese per Palazzo Ducale che il mito trova realizzazione, e fra le varie immagini dipinte dal grande artista ce n’è una che starebbe benissimo su un manifesto inneggiante al federalismo fiscale.

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Giunone riversa doni e prosperità su Venezia. Una delle invenzioni più felici dell’iconografia del mito: non c’è una separazione netta fra sopra e sotto, le due figure femminili si rispecchiano una nell’altra, sono la stessa cosa. E soprattutto in Giunone si nasconde la maschera dell’altra Regina del Cielo, la Vergine, che spesso si identifica con la città, il 25 marzo è la data di nascita di Venezia e coincide con quella dell’Annunciazione, festa mariana per eccellenza.

Venezia si identifica come città regale e città santa, al tempo stesso Nuova Bisanzio (cioè Nuova o meglio Nuovissima Roma) e Nuova Gerusalemme. È colei su cui, a buon diritto, cadono i doni del cielo, ma è anche coli che quei doni dispensa, a suggerire l’idea di una redistribuzione delle risorse, che certo non avvenne in Età Moderna e probabilmente non avverrebbe ora, in Età Contemporanea.

Questo non è però l’unico modo in cui si sfrutta il mito di Venezia oggi, a livello quasi completamente inconscio. A questo mito “alto”, di cui si possono percepire solo le tracce che corrono sotto la pelle del tessuto sociale della regione, se ne è nel tempo affiancato un altro, quello di Venezia città altra, romantica e fuori dal tempo, in cui il tempo si è fermato e in cui il tempo non scorre. Mito a buon mercato (neanche troppo) per turisti mordi e fuggi, ma anche mito sfaccettato e rivoltato negativamente, inteso come trasformazione della città in città-museo e come tale, luogo noioso, polveroso, rivolto solo al passato e votato alla distruzione.

Mito negativo che nasce con i futuristi, che non concepivano l’esistenza di Venezia, che proponevano l’abbattimento dei vetusti palazzi cadenti per usare le macerie per colmare i canali e trasformarli in strade dove avrebbe potuto sfrecciare il progresso. D’altra parte poco prima i veneziani stessi avevano voluto un luogo in cui poter fare le passeggiate in carrozza, come si addiceva al loro rango, il risultato fu via Garibaldi, unico luogo di Venezia, con l’eccezione di Piazza san Marco, a cedere alla toponomastica comune alle altre città, non fondamenta, rio terà, calle, ma via.Simbolicamente non è un passaggio da poco, è la trasformazione delle “antiche mura”, di quello che veniva visto come lo strumento di difesa e il rifugio sicuro per eccellenza in un ostacolo da abbattere. Furono momenti, quelli di inizio Novecento che segnarono la prima trasformazione del tessuto urbano, e il suo ripensamento verso forme urbanistiche in tutto e per tutto simili a quelle delle altre città, con fatti eclatanti come la costruzione del Ponte della Libertà, che segnava la fine dell’isolamento difensivo veneziano e l’apertura ad un progresso che iniziava a farsi vivo in tutti i campi, anche con l’istituzione della prima biennale nel 1895. Il senatore Pompeo Molmenti, personaggio di spicco dell’ambiente culturale veneziano del tempo commentò il fatto con un “delendae Venetiae”, significando che se non si teneva conto delle specificità della città, se si voleva considerarla come un qualsiasi altro centro abitato, allora tanto valeva abbatterla completamente e ricostruirla altrove (che era uguale a non ricostruirla più).

A questo mito i pittori veneziani del tempo, formatisi all’Accademia sotto la guida, tra gli altri, dello zio di Molmenti stesso opposero a queste teorie la ricerca pittorica di una Venezia “vera” e vista sempre dalle acque, dal suo elemento primigenio, ne costituiscono un esempio estremo i campi affollati di vita di Giacomo Favretto 

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Venezia ha vissuto tutto il Ventesimo secolo e lo scorcio di questo Ventunesimo in questa contraddizione, venendo coinvolta in progetti urbanistici che ne volevano l’ammodernamento, ma che ne segnavano la perdita di specificità, che non facevano altro che rendere più paradossale la sua situazione. Perchè la nuova architettura non è veneziana, si rifiuta di pensare Venezia come una città che non sorge su un terreno solido (esempio lampante l’avveneristico ponte di Calatrava) e giunge a non capire che pensare edifici senza anima in legno a Venezia significa causarne lo sprofondamento.

Ultima incarnazione di questo paradosso è la candidatura olimpica della città. Sostenuta da tutti e a tutti imposta con la solita scusa “porterà lavoro e schei a tutti” (vedere la figura sopra), la candidatura è ovviamente un paradosso, perchè tutti sapevano che non sarebbe stata accettata. È inutile girarci intorno, Venezia non può sostenere i numeri di persone che girano intorno ad un evento olimpico, tanto più se sommate al già eccessivo traffico turistico.

E soprattutto Venezia non è in grado di offrire i servizi necessari a quelle persone, né agli spettatori, né agli atleti. Il prezzo da pagare per farlo sarebbe la rinuncia alla specificità di Venezia, sarebbe cioè “Delendae Venetiae”, trasformare Venezia in qualcosa d’altro, forse più bello, forse più utile, ma forse invece più brutto e invivibile, comunque sia significherebbe la rinuncia non solo al mito, ma anche alla storia.

Ma coloro che premono per la candidatura olimpica e oggi per altre cose, magari la revisione dell’antico fondaco dei Tedeschi non si interessano alla storia, forse si interessano al mito, e sono perfettamente consapevoli che un mito può essere riscritto in modo abbastanza semplice, soprattutto se si fa propaganda, e allora ricorrono al nuovo mito Venetiae = le Venezie, il Veneto.

Eppure il Veneto stesso non ha gli spazi e le strutture per organizzare la modernità che magari è nata pensando agli spazi di san Francisco, e anche lì lo spazio di manovra per costruire è poco, mangiato non dai vecchi canali, ma dai nuovi capannoni, che hanno modificato il paesaggio verde e azzurro dei quadri di Cima da Conegliano e Lorenzo Lotto in qualcosa di irriconoscibile e grigio. Bisognerebbe ripensare e riqualificare gli spazi della regione come non è mai stato fatto, e questo non può essere fatto con i soldi dei finanziamenti olimpici o di altri finanziamenti che dovrebbero arrivare da un cielo in cui forse non alberga più una pietosa Giunone. Semplicemente perchè non è di quello che la regione ha bisogno, questa terra non ha bisogno di mega-strutture sportive o di infrastrutture pesanti e voluminose che attirino lo sguardo e facciano spalancare le bocche dallo stupore. Ha invece bisogno di snellirsi e alleggerirsi, trovare spazi più ampi per respirare e vivere meglio, senza doversi schiacciare ad ogni costo sotto il peso di se stessa.

Bisogna, insomma, uscire da una teoria delle “grandi opere”, di cose pesanti e costose che hanno poca utilità pratica, ma finiscono per schiacciare ogni altra idea sotto la loro mole, concentrando tutte le risorse e i finanziamenti nelle mani dei pochi, che vogliono tanto sentirsi eredi degli oligarchi veneziani per lasciare ancora una volte le briciole agli altri.

Venezia ha costruito un mito di se stessa per non trovarsi di fronte alla storia, per paura del fallimento, ancora una volta si tenta questa strada, ma sarebbe necessario guardare ad altre soluzioni.

Venetiae è diventata Venezia, al singolare, è una città ed è ancora orgogliosamente viva, sebbene un po’ ammaccata, i suoi ponti sono ancora in piedi, la sua architettura leggera sfida ancora lo sprofondamento del suolo, in modo molto più efficace di quanto possa fare qualsiasi progetto di grande opera. La sua storia è stata piena di ombre, che qualcuno ha sempre preferito non vedere, ma anche di luci altrettanto ignorate, fu ad esempio a Venezia che Francesco Zorzi e Guillaume Postel annunciarono l’arrivo di un mondo nuovo fatto di concordia universale e amore fraterno, di religioni tolleranti e uomini capaci di cambiare il mondo.

Venezia non fu forse mai le Venetiae in senso pienamente pluralistico, ma questo non significa che non possa mai diventarlo, perchè è Venezia che può offrire un modello di diversità al Veneto e anche più in là, con la sua esistenza può insegnare che ci sono modi di vita diversi da quelli che purtroppo consideriamo normali, imposti da un’urbanistica (e da una società) che troppo spesso vuole piegare tutto e tutti a principi utiliritaristici. Venezia ci dimostra che si può vivere rispettando l’ambiente circostante e integrandosi ad esso in una simbiosi perfetta e trovare in ciò un motivo di distinzione e di orgoglio.

No, non è ancora il momento di dire con rassegnazione “delendae Venetiae”.

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Venezia fra mito e distruzione

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Venetiae. La città porta in latino un nome plurale, ad indicare come essa sia sorta dall’insieme delle diverse comunità che si trovavano sulle isole della laguna, tutte accomunate dall’appartenenza al popolo dei Veneti, antichi adoratori delle acque e del loro potere curativo, simboleggiato dalla dea Reitia, entità benigna che animava sia le calde sorgenti termali di Abano che le fresche acque dei torrenti montani che scivolano giù dalle Dolomiti bellunesi.

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Storia strana quella di Venezia, sempre in bilico fra divisione e comunione, una storia forse simboleggiata dall’iniziale conflitto fra Malamocco e Rialto; fra un’isola e la zona dove sarebbe sorto il primo ponte sul Canal Grande, che potrebbe essere preso ad ideale di unione.

Strana storia quella del Veneto medievale, o meglio normale storia di campanilismi e lotte, come se tutto il territorio non fosse che una laguna in cui si trovano tante isole separate, tanto che uno degli elementi fondamentali del paesaggio veneto, di cui ancora oggi i veneti vanno fieri rivendicandolo come parte fondante della loro tradizione, è la città murata. Simbolo esplicito di esclusione, di diffidenza dell’altro, che è qualcuno con cui è meglio annusarsi a distanza, meglio se da dietro la protezione di alcuni metri di pietra. Ed è in questo periodo storico che Venezia comincia ad imporsi come città distinta eppure superiore a quelle che condividono la scena con lei. Città senza mura, aperta al mondo dalla parte del mare, eppure al tempo stesso città le cui mura sono le più impenetrabili che si possano immaginare perchè sono fatte di un materiale indistruttibile, l’acqua.

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E Venezia metterà a frutto questo vantaggio, inghiottendo gli avversari uno dopo l’altro, sfruttando le loro divisioni ed inimicizie, contando sulla propria inattaccabilità e sulla possibilità di rifugiarsi sempre all’interno di quelle mura impenetrabili.

Venetiae assume un significato completo quando si entra nell’età moderna, con la completa identificazione del territorio abitato dai Veneti con quello occupato dalla città che porta il loro nome. Ed anche qui abbiamo la duplicità della situazione. Il territorio per la prima volta dai tempi di Roma si trova unificato, non più spezzettato in piccoli potentati e signorie insignificanti, ma non è solo unificato, è anche colonizzato dalle famiglie nobili veneziane, quelle che si erano arricchite a dismisura con il commercio nel Medioevo e, ora, decidono di accaparrarsi anche la nuova fonte di ricchezza, la terra.

E’ l’inizio del Quattrocento, per un secolo i nobili veneziani sentono di poter colonizzare e ricavare dalle terre, lasciandole sostanzialmente all’amministrazione di mezzadri, ma poi cambierà qualcosa. E il cambiamento arriverà con la guerra con la Lega di Cambrai e l’occupazione imperiale di gran parte del territorio. Molte città aprirono le porte alle truppe nemiche di Venezia, accogliendole come liberatori. La battaglia di Agnadello, il 14 maggio 1509, la più pesante sconfitta subita dagli eserciti veneziani nel corso della loro storia fu un vero e proprio colpo per la nobiltà veneziana, che vide i propri possedimenti in Terraferma conquistati e gli eserciti nemici accampati dall’altra parte della laguna. Fu visto come un segno dell’Apocalisse.

Un quadro di Bonifacio Veronese conservato alle gallerie dell’Accademia sembra adattarsi perfettamente alla situazione.

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La scena rappresenta l’episodio evangelico del povero Lazzaro e del ricco banchettatore, che badava solo a mangiare e a far baldoria pur avendo davanti a sè un mendicante che moriva di fame. Il ricco è rappresentato come un nobile veneziano dell’epoca, allietato dal suono di musica, circondato di belle dame e assolutamente indifferente alla povertà di Lazzaro.

Eppure sullo sfondo è presente la minaccia, il fuoco è alle porte del muro di cinta della villa del ricco, e i cavalieri che l’hanno appiccato sono già nel cortile, li vediamo entrare al galoppo nell’angolo in alto a sinistra del dipinto.

E’ un quadro contemporaneo alle commedie del Ruzzante, da questi due elementi continueremo la nostra analisi.

Continua…

IL TEMPO DELL’INQUIETUDINE – RINASCIMENTO VENETO

Corso di storia dell’arte

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Un viaggio tra le luci e ombre di una Venezia nei suoi secoli più attivi, quelli che hanno visto l’incessante competizione fra Giovanni Bellini e Andrea Mantegna, nutrita dal fascino dell’antico e dal sentimento dell’architettura maestosa e imponente.

E, poco più tardi, le prime incrinature, con l’esplosione del genio di Tiziano, l’inquietudine di Lorenzo Lotto, le infinite invenzioni di Tintoretto e Veronese, in una temperie artistica, di straordinario fervore, che apre un’avventura unica nella cultura figurativa italiana.

Un viaggio, dunque, tra le luci e le ombre di una Venezia in cui i mercanti diventavano proprietari terrieri, cercando faticosamente di costruire uno “stato da terra”, impresa che si serve degli strumenti dell’arte per la costruzione del “mito” di stato, creando parallelamente un linguaggio di completa libertà individuale e religiosa.

Il corso ha una durata di 8 lezioni (h. 21.00 – 22.30), ogni martedì, a partire dal 18 febbraio all’8 aprile 2014 e avrà luogo presso il Centro Comunale Presca, via Colombo 1, San Domenico di Selvazzano Dentro. Il costo del corso è di 36 euro.

Informazioni e Iscrizioni

Biblioteca Comunale, Via Cesarotti, 1 – Selvazzano Dentro

Tel. 049 8056470 Fax 0498059379

orario: mar/mer/ven/sab 09.00-13.00

dal lun al gio 14.30-19.00

E-mail: biblioteca@comune.selvazzano-dentro.pd.it

www.comune.selvazzano-dentro.pd.it

Uno sguardo a: “Con i piedi per terra”

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È nelle edicole padovane da qualche giorno il secondo numero di Con i Piedi per Terra, una rivista bimestrale che porta l’ambizioso sottotitolo di “una guida alla conoscenza del territorio”, promettendo in copertina di occuparsi di arte, storia e natura, prodotti tipici.

La specificazione è importante, perché spesso in questi tempi le parole tendono a perdere di senso concreto e a diventare un ritornello retorico che si sente di continuo fino ad essere annullato dalle nostre orecchie come uno dei tanti rumori di fondo che caratterizzano la nostra vita.

La parola “territorio” rischia di essere uno di questi rumori di fondo, si parla tanto e spesso di tutela del territorio, di difesa del territorio, di prodotti del territorio, di territorialità in pericolo, eccetera, ma prima e dopo questi discorsi, nulla sembra cambiare nella vita intorno a noi.

Il significato di territorio non è altro che questo, la realtà in cui viviamo, se fossimo pesci da salotto il nostro territorio non sarebbe altro che l’acquario in cui nuotiamo tutti i giorni. I nostri confini non sono così tangibili come quelli di un acquario, certo, ma ciò non toglie che per noi sia importante conoscere l’acqua in cui ci muoviamo, sapere che è meglio non sporcarla e capire quale opportunità essa ci possa offrire.

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Ecco allora che ci conviene eliminare l’indefinita trasparenza dell’acquario per dare a “territorio” una manifestazione più tangibile ed otteniamo “arte, storia e natura, prodotti tipici”, cose concrete che rappresentano una ricchezza, un’opportunità, ma che spesso si trovano in pericolo nel mondo contemporaneo in quanto sembrano contrarie ad una logica di consumo continuo e irrazionale che deve rinnovarsi molto velocemente, altrimenti ci accorgeremmo dell’inutilità dei valori che esso propone.

Il campo d’azione di Con i Piedi per Terra ci riporta invece ad una realtà che è stata per secoli parte dello stile di vita e della storia del Veneto dal Medioevo all’Ottocento. Prima le grandi abbazie, soprattutto benedettine, in seguito la civiltà della villa si sono occupate del territorio in questo senso: bonificando le paludi, canalizzando le acque, arricchendo la terra, dedicandosi alla coltivazione o all’allevamento di specie selezionate con cura, creando luoghi in cui vivere secondo ritmi cadenzati, ma in cui ci fosse spazio per la ricerca e la meditazione, per l’arte intesa come arricchimento della vita allo stesso modo in cui potesse essere la produzione di frutti della terra. La rivista si occupa primariamente di un territorio ricco di queste testimonianze, la Bassa Padovana e l’alto Polesine, in sostanza i territori segnati dal corso dell’Adige e dei suoi affluenti. Qui troviamo le maestose città murate come Montagnana, Este e Monselice, le abbazie benedettine un tempo numerosissime, fra le quali spicca quella ancora attiva di Carceri, le ville opera spesso di grandi maestri come Palladio e Sansovino, attivi ad esempio a Montagnana, Fratta Polesine e Candiana, dove si trova anche un inaspettato trionfo rococò nel duomo costruito con il mecenatismo della famiglia Albrizzi.

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Con i Piedi per Terra cerca di proseguire su questi insegnamenti, naturalmente ricollegandosi alle conquiste dei nostri tempi, che permettono di ridurre la fatica naturalmente connessa ai lavori della terra e che spesso possiamo dimenticare in ricostruzioni troppo bucoliche ed idealizzate. Lo scopo della rivista sembra essere di sapersi tenere in equilibrio fra il passato, visto come una fonte di esperienza e dunque insegnamento, e il futuro, che prospetta sempre nuove sfide che vanno affrontate con consapevolezza dei propri mezzi e soprattutto dei propri obiettivi, che si spera riescano a guarire parte delle ferite che sono state inferte al territorio da un trattamento troppo spesso dissennato e irrispettoso da parte delle persone stesse che lo vivono.

L’augurio che facciamo alla rivista è quello di riuscire un giorno ad occuparsi di un quarto argomento che vada ad aggiungersi ai tre già presenti in copertina. Arte, storia e natura e prodotti tipici sono infatti tre elementi importanti, ma essi sono pur sempre degli “oggetti”, dei prodotti dell’attività di qualcuno. Essi ci parlano dei loro produttori, certo, ma sempre in una voce indiretta, l’augurio è dunque quello di arrivare a far parlare in primo piano le persone, i protagonisti di un mondo che si spera avviato al cambiamento e alla ricerca di un significato in ogni gesto.

L’altro Brenta: la Certosa di Vigodarzere

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Mentre infuriava la Guerra della Lega di Cambrai (1508 – 1516) il Veneto tenne il fiato sospeso. La regione era percorsa da eserciti di varie provenienze e nazionalità, le truppe tedesche imperiali tennero a lungo sotto assedio Padova, che prima aprì le porte agli invasori, poi li cacciò sostenendo le milizie veneziane guidate da Andrea Gritti.

Il Gritti pensò subito a fortificare la città appena ripresa, le antiche mura trecentesche non bastavano più a difenderla. Nacque così la nuova cinta muraria di Padova, in parte ancora visibile. L’esercito imperiale era però particolarmente temibile perché equipaggiato di potenti bombarde che potevano ridurre in frantumi le fortificazioni nemiche. Fu così necessario abbattere un gran numero di edifici perché l’artiglieria tedesca non potesse avanzare al coperto, ma dovesse esporsi al tiro dei difensori che avrebbero potuto colpirla da sopra le mura. Fu questo, il “guasto”

Fra gli edifici abbattuti ci fu la quattrocentesca certosa di Padova, dedicata ai santi Geronimo e Bernardo.

Finita la guerra, l’ordine certosino decise di ricostruire l’abbazia in un luogo più lontano dalla confusione cittadina, che favorisse le attività di meditazione dei monaci. Scelse un luogo vicino al paese di Vigodarzere, fra le anse del Brenta, in una terra ricca di acque e produttiva, protetta dal fiume serpeggiante dai clamori e dalle minacce del mondo.

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I monaci chiamarono a dirigere i lavori per la nuova abbazia l’architetto bergamasco Andrea Moroni, che era già attivo a Padova dove aveva ristrutturato completamente il Palazzo del Podestà (ancora oggi sede del Municipio), che porta il suo nome, e dove svolgeva l’incarico di capocantiere per la ristrutturazione della basilica di Santa Giustina.

Tutte le certose sono costruite su imitazione del modello del monastero fondato per la prima volta da san Bruno di Colonia e da sei compagni sulle Alpi francesi. Il modello architettonico prevede dettagliatamente la disposizione degli spazi comuni, come refettorio e biblioteca e degli spazi riservati ai singoli monaci, suddivisi in piccole celle per favorire la meditazione personale che andava accompagnata al lavoro comunitario nei campi e negli spazi comuni. I centri della vita monastica erano i vari chiostri, che suddividevano l’ambiente in modo armonioso, quasi musicale e che univano le funzioni di meditazione e di preghiera.

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A Vigodarzere Andrea Moroni pensò una struttura imponente, adatta per ospitare un buon numero di monaci, ma il monastero non raggiunse mai l’importanza che i generali dell’ordine certosino avevano sperato, il Cinquecento era un secolo difficile per i monasteri, la Riforma protestante aveva attaccato con forza i monaci, dipingendoli spesso a tinte fosche e considerandoli privilegiati che non portavano niente alle comunità che li dovevano invece mantenere. E questo aveva portato, anche nel mondo cattolico, alla nascita di nuovi ordini religiosi che si adattavano meglio ad una civiltà nuova e sempre più urbana.

La Certosa di Vigodarzere nasceva in un certo senso già antiquata, legata a stili di vita e di pensiero ancora medievali, come la fuga dal mondo, la ricerca della pace legata al lavoro dei campi. Nel mondo cinquecentesco le vaste distese di terra coltivabile non potevano più essere lasciate ai monaci, i patrizi veneziani e i nobili veneti in genere pensavano che la terra dovesse appartenere a loro e la “colonizzavano” sempre di più istituendo quella forma primitiva di azienda agricola che fu la villa veneta.

Il monastero sulle rive del Brenta resistette fino al 1768, quando la Serenissima Repubblica chiuse per decreto tutte le installazioni religiose che ospitavano meno di dodici monaci e incamerò le loro proprietà per fare cassa a causa soprattutto delle difficoltà economiche iniziate con l’interminabile guerra di Creta e che nel  corso del Settecento non avevano fatto che aumentare. La terra e gli edifici furono acquistati all’asta dai marchesi Zigno nel 1780, che cercarono di adattare la struttura proprio a villa di campagna, trasformandola in parte secondo il loro gusto.

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Il risultato, visibile ancora oggi, è un ibrido fra la villa settecentesca e le forme monastiche, che rimangono riconoscibili soprattutto nella struttura dei chiostri e nella “mura” che circonda l’edificio, dalle spiccate forme medievali.

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La Certosa non ha avuto una storia fortunata, la guerra è stato il motivo che ha accompagnato quasi tutta la sua storia, dalla guerra di Cambrai, a quella di Creta, fino al Novecento, quando fu usata come caserma durante la prima guerra mondiale e come polveriera nella seconda, quando inoltre divenne un luogo di rifugio e di raccolta per gli sfollati causati dai bombardamenti.

Queste esperienze hanno fortemente segnato l’edificio, che versa in uno stato di degrado che si nota a prima vista. Eppure questa grande casa monastero immersa nel verde, a poche decine di metri dalle sponde del Brenta e a pochi chilometri dalla confusione del traffico padovano conserva ancora un fascino che resiste al tempo e alla decadenza.

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Villa Widmann – Mira (VE)

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Il nome forse eccessivamente lungo di villa Widmann Rezzonico Foscari è dovuto ad un’oculata politica matrimoniale che avrebbe dovuto portare una famiglia al centro della politica veneziana. Un’ascesa che in parte avvenne, come testimonia la presenza di molti personaggi illustri del Settecento lagunare ed europeo nella piccola villa sulle rive del Brenta, che ospitò Goldoni, Mozart e Goethe.

Non a caso due di questi erano di lingua tedesca, i Widmann sono un’antica famiglia carinziana, trasferitasi a Venezia nel Quattrocento per motivi d’affari. Erano dunque nobili imperiali, ma non patrizi veneziani, non appartenevano cioè alla ristretta cerchia di famiglie che si spartivano l’accesso alle cariche pubbliche della Serenissima repubblica. Erano insomma ricchi, ma in un certo senso si sentivano esclusi dall’elite dirigente, fuori dal potere reale, o semplicemente condannati a rimanere per sempre foresti.

La leggenda vuole che i Widmann avessero contattato per la decorazione della Villa Giambattista Tiepolo, pittore che avrebbe con la sua sola presenza garantito il conseguimento di uno status sociale, e che questi avrebbe accettato la committenza, con il patto che avrebbe prima finito l’affresco per i Pisani a Stra.

Fu però chiamato a Madrid dal re di Spagna, completò l’affresco di Stra con una velocità che lasciò stupiti i contemporanei e partì verso la committenza più nobile e remunerativa.

Ai Widmann non restò che chiamare il quadraturista della bottega tiepolesca, Francesco Mengozzi Colonna, che era rimasto a Venezia, dicono a causa dell’età e dovettero cercare un rimpiazzo per gli affreschi.

Giuseppe Angeli era un pittore le cui quotazioni erano in crescita sulla scena veneziana, di lì a qualche anno sarebbe diventato presidente della neonata Accademia di Belle Arti, occupando un altro posto che era già stato del Tiepolo.

Il salone delle feste era il centro della villa settecentesca e a quello di villa Widmann fu dedicata particolare attenzione. Fu realizzato sfondando il soffitto della parte centrale della villa: un ballatoio segna la demarcazione fra i due livelli, questa balaustra era lo spazio riservato all’orchestra, di conseguenza l’acustica delle sale veniva studiata affinchè la musica scendesse verso i danzatori a cui era riservato l’intero piano terra.

Mengozzi Colonna eseguì le sue quadrature, elemento tipico della decorazione rococò, un insieme di elementi fitomorfi e grottesche di vario genere che, attraverso un effetto di trompe-l’oueil, dessero l’illusione della tridimensionalità scultorea. All’interno delle cornici così create lavorò Giuseppe Angeli.

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Il progetto decorativo vuole rappresentare una sorta di sintesi della storia mondiale, anche se in modo congeniale alla mente settecentesca che procede per allegorie e sovrapposizioni. Il culmine di questo mondo ideale racchiuso in un ambiente privato è l’affresco del soffitto, dal significativo titolo de La gloria della famiglia Widmann. L’apoteosi della famiglia è simboleggiata da un personaggio che sale al cielo tenendo in mano i simboli araldici dello stemma del casato, il crescente lunare e il giglio. Questi oggetti vengono presentati come se si trattasse di un omaggio ad una figura che raccoglie in se le caratteristiche dell’Onore, ma anche di Giunone, la regina del cielo, e di Venezia, tre concetti che erano considerati all’epoca contigui e dunque raffigurabili in un’unica personificazione. Questa offerta è sormontata da un’altra figura che si toglie una maschera, che si rivela essere un sole radioso, è la Verità che sancisce il raggiungimento da parte dei Widmann della gloria che ad essi compete. Al di sotto delle nuvole si trovano quattro figure che personificano le quattro stagioni, in primo piano si trovano la Primavera (di fronte) e l’Autunno (di spalle), a significare che esse accoglievano e salutavano i signori all’inizio e alla fine della loro villeggiatura, Estate ed Inverno sono invece seminascosti tra le nuvole. Le quattro figure garantiscono però la presenza dell’intero ciclo annuale, cioè dell’eternità, alla scena che sta prendendo forma al di sopra dello loro teste, che assume dunque il valore di un evento epocale.

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Intorno al ballatoio, al primo piano, Angeli eseguì delle pitture a monocromo in una tinta che ricorda quella del bronzo, dove sono rappresentati episodi della storia romana: Muzio Scevola, Coriolano, Marco Curzio. Scene di sacrificio e di amor di patria, che ricordassero la virtù dimostrata dai Widmann nel loro rapporto con Venezia nonchè la loro pura e semplice integrità morale.

Al piano terra torniamo ancora più indietro nel tempo, all’epoca che per Erodoto e altri scrittori aveva segnato l’inizio della storia stessa: quella della guerra di Troia. Le due grandi scene che decorano le pareti est ed ovest della villa rappresentano due stati d’animo e due momenti opposti: si tratta del ratto di Elena e del Sacrificio di Ifigenia.

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Nella prima scena tutto è esuberanza, forza e gioia di vivere. Paride viene rappresentato come un giovane guerriero dalla carnagione scura, che solleva un’Elena niente affatto recalcitrante per caricarla sulla sua nave, intorno i suoi uomini sono indaffarati a sciogliere le gomene ed issare le vele, che stanno già per essere gonfiate dal vento, che rende vivace anche il mare, come si può notare in un angolo dell’affresco.

Elena è raffigurata come una nobildonna veneziana, le perle che porta tra i capelli sono un segno di rango sociale di nascita e di status acquisito con il matrimonio. Le perle erano il simbolo della purezza delle signore veneziane, per questo le portavano solo le donne sposate, che attraverso il loro matrimonio avevano compiuto un percorso civile ed umano che le rendeva quasi perfette, come i preziosi che acquistavano il diritto di portare. Questo sistema di valori, espresso anche attraverso la pittura dei grandi maestri cinquecenteschi, era stato funzionale al mantenimento dell’oligarchia tradizionale, costituita da poche famiglie suddivise in molti rami che si sposavano fra loro per favorire la trasmissione del potere unicamente nel contesto dell’oligarchia.

Passiamo al secondo affresco, che vede protagonista un’Ifigenia spossata dalla tristezza. La leggenda è abbastanza nota: i Greci avevano radunato in Aulide la loro grande flotta per muovere guerra a Troia, ma non riuscivano a salpare perchè il mare era imperturbabile, sempre in bonaccia. Agamennone, condottiero dell’armata, decise  di interpellare l’indovino Calcante per sapere quale fosse il motivo di quell’evidente segno di disapprovazione divina nei confronti dell’impresa. La risposta fu secca: era colpa sua. Andando a caccia, aveva ucciso una cerva sacra alla dea Diana, e questa era offesa con lui, per riparazione chiedeva che il re le offrisse in sacrificio la più amata delle sue figlie, Ifigenia. Nel mito greco la storia porterà infiniti lutti alla famiglia di Agamennone, ma nella rappresentazione il tema è addolcito, quasi come fosse mescolato al Sacrificio di Isacco, vediamo infatti Calcante che ferma la mano di Agamennone che brandisce il pugnale, mentre una cerva appare a sostituire la giovane sull’altare del sacrificio, e tutto si risolve in una teofania di Diana, che risolve la situazione. Nel mito originario, Ifigenia veniva salvata, ma all’insaputa del padre e di tutti gli astanti, qui la cosa è palese e manifesta a tutti.

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Se Elena era rappresentata come una nobildonna matura, Ifigenia è una giovane sposa, intorno al collo porta le fasce blu, che le giovani indossavano nel giorno del matrimonio. Il matrimonio di Ifigenia era però un inganno, le era stato infatti detto che avrebbe dovuto raggiungere il padre perchè gli dei avevano decretato che la spedizione di guerra avrebbe avuto successo se lei avesse sposato Achille, il più bello e valoroso degli eroi. Un matrimonio mancato, e navi che non riescono a salpare. L’associazione di idee con la situazione contemporanea in cui la flotta veneziana era bloccata nei porti, non dominava più i mari come era stato ai tempi eroici della Serenissima sembra evidente e quindi il matrimonio che non si verifica coinciderebbe con lo sposalizio con il mare, cerimonia secolare che contrassegnava il regime dogale. Allora forse prende senso anche l’intervento salvifico di Diana, che appare come l’unica figura le cui vesti sono mosse da un vento impetuoso e che sfoggia sulla fronte il crescente lunare, simbolo della sua divinità, ma anche evidente riferimento ai Widmann, che potevano presentarsi in società come la speranza di un nuovo soffio vitale per Venezia.

Attivati nuovi corsi a Selvazzano

A partire dal dicembre 2013 e per tutta la prima metà del 2014, Villeggiare terrà corsi di storia dell’arte e archeologia presso il comune Selvazzano. Per iscrizioni e informazioni contattare la Biblioteca Civica di Selvazzano Dentro al numero 049/8056470.

A dicembre partiranno i primi due corsi:

Storia della prima Europa:

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Il corso, articolato in 8 incontri, intende fornire una visione della preistoria europea quanto più completa possibile,offrendo una presentazione delle principali problematiche connesse alla ricerca  storica per tempi così remoti e proponendo una ricostruzione della cultura europea nei tempi che precedono lo sviluppo delle civiltà più conosciute del bacino del Mediterraneo.

Il percorso si articola in 8 incontri:

  1. Quanto indietro? Problemi di cronologia e la “rivoluzione del radiocarbonio”
  2. Il Paleolitico e la nascita dell’arte

  3. La nascita dell’agricoltura e la “civiltà della dea”

  4. Gli Indoeuropei, storia e ipotesi

  5. Calendari di pietra: da Malta a Stonehenge

  6. Il problema della scrittura: quando e dove?

  7. La nascita della cultura urbana

  8. Verso la storia: le età del Bronzo e del Ferro in Europa

Il corso inizierà lunedì 2 dicembre in orario serale, le lezioni avranno cadenza settimanale

Geometrie dello spirito. L’arte del Medioevo

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Il corso vuole fornire una lettura storica e interpretativa della cultura architettonica di ambito religioso durante il Medioevo. Verranno quindi esplorati i concetti di stile romanico e gotico, analizzando in particolare il caso italiano, caratterizzato da varianti regionali. Realtà che saranno affrontate attraverso la lettura di alcuni esempi di particolare rilievo, soprattutto per quanto concerne l’area padana. Il corso prevede 8 lezioni:

  1. Romanico e Gotico in Europa

  2. Romanici” italiani

  3. Visioni di pietra. Il caso padano

  4. La scultura romanica in area padana: Wiligelmo e Benedetto Antelami

  5. Il problema del “bizantino”

  6. Venezia. Crocevia di stili

  7. Giotto: rivoluzione o rinascenza?

  8. Il crepuscolo del Medioevo: tardo-gotico e signorie.

Il corso partirà martedì 3 dicembre in orario serale e gli incontri avranno cadenza settimanale