Il potere è la maschera. Venezia nel Settecento e oggi

“In questa Venezia, letta come luogo in cui siede vittorioso lo <<sguardo>> errante e il gioco delle analogie, viene attivato il bisogno di fare i conti con l’inquietudine profonda che Venezia genera nei <<moderni>>. E’ l’intera storia della Dominante, infatti, che fa problema alla <<civiltà del progetto>>: una sfida sottile emana da Venezia, investendo i presupposti stessi della modernità. Le risposte a tale sfida: l’immobilismo, l’ipervenezianità, l’incontrollata hybris tesa ad esorcizzare l’inquietudine”.

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Robert Venturi, progetto per il ponte dell’Accademia, 1985

Con queste parole Manfredo Tafuri, indimenticato storico dell’architettura veneziana recensiva nella sua Storia dell’architettura italiana 1944-1985 la biennale di architettura del 1985 in cui Paolo Portoghesi aveva invitato la creme dell’architettura contemporanea a presentare dei progetti per ripensare l’architettura veneziana. La mostra aveva il titolo ambizioso di Progetto Venezia e si poneva l’obiettivo di proporre un nuovo volto di Venezia, immaginato ponendosi sulla scia ideale dei Capricci di Canaletto.

La critica di Tafuri però era volta a stigmatizzare un intero habitus dell’architettura contemporanea, quello di voler pensare in grande senza avere in realtà idee. Sfogliando i progetti del 1985 troviamo edifici fuori scala, incomprensioni, voglia di mettere il proprio segno su una città millenaria perchè questo fungerebbe esclusivamente da richiamo, nessuna proposta veramente costruttiva o innovativa, solo il volersi consegnare al postmoderno, quella categoria mentale di chi non ha idee, ma ne va particolarmente orgoglioso.

Eppure è esattamente quello che abbiamo visto a Venezia negli ultimi circa trent’anni, una volontà di piazzare grandi segni nel corpo della città senza che questi abbiano un qualsiasi valore etico o anche semplicemente estetico o funzionale, interventi decisi da una presunta elite di finanzieri, politici, soprintendenti che ritengono di poter agire al di fuori di ogni logica e controllo. Interventi spesso stigmatizzati nella bella collana Occhi aperti su Venezia di Corte del Fontego editore.

Numerosi sono gli interventi che si sono susseguiti negli anni a riguardo, ma questo intervento vuole fare qualcosa di diverso, vuole chiedersi quando storicamente nasce questa Hybris, questa volontà di poter fare tutto senza incontrare opposizione, ponendo a propria difesa un potere autoreferenziale?

C’è un episodio del Novecento veneziano che segna la percezione della storia della città e al tempo stesso sembra voler tracciare una linea tra alcuni privilegiati e gli altri abitanti, ed è il cosiddetto Ballo Orientale organizzato da Carlos (o Charles) de Beistegui.

Beistegui era un nobile francese di origine messicana, ricchissimo e famoso per la sua eccentricità e per la volontà di essere sempre al di sopra degli altri, aveva comprato Palazzo Labia e fatto restaurare gli affreschi di Tiepolo realizzati quasi esattamente due secoli prima

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Panoramica del Salone da Ballo di Palazzo Labia, affrescato da Giambattista Tiepolo tra il 1743 e il 1750

Nel Salone da Ballo fu organizzato, nella notte del 3 settembre 1951, il <<Ballo Orientale>> festa in costume a cui Beistegui invitò nobili, artisti e personaggi dello spettacolo, tutti invitati a venire in costume settecentesco, cosa che fece sbizzarrire i creativi, tanto che è famoso l’aneddoto di Christian Dior e Salvador Dalì che realizzarono uno il costume dell’altro.

Le immagini del ballo ci mostrano un gruppo di persone frivole e piene di sè che cercano di apparire diverse senza avere in realtà nulla da dire, immagini che ci ricordano le feste descritte da Stanley Kubrick in Eyes wide shut, film in cui il regista, con il suo solpo d’occhio geniale e alienante, descrive una classe media decadente cercare di imitare una supposta elite altrettanto decadente.

 

Eppure la proiezione era evidente: i protagonisti del ballo cercavano di discolparsi attribuendo al Settecento veneziano la frivolezza che loro stessi portavano dentro di sè, attribuendo all’ultimo secolo di Venezia un’aria di continuo carnevale in cui in realtà a loro sarebbe piaciuto vivere ben più che ai nobili patrizi spesso impegnati nel cercare di tenere vivo uno stato continuamente a rischio di essere stritolato dalla tenaglia austriaca.

Chissà quanti dei protagonisti del Ballo Orientale sapevano che il Salone di Palazzo Labia era usato dall’abate Angelo Maria Labia per le sue rappresentazioni di commedie dell’arte di cui scriveva i canovacci, ma in cui gli attori erano esclusivamente dei burattini…

Il Settecento veneziano fu probabilmente un grande teatro, in cui le maschere venivano indossate sopra altre maschere per nascondere la verità, ma dietro la maschera dell’attore spesso si poteva ancora scorgere il volto di un grande politico, nella Venezia attuale, come già prevedeva Tafuri, il vuoto regna sovrano…

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Venezia, il Settecento e il Mondo

 

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G.B. Tiepolo, L’Olimpo e i quattro continenti, 1750-1, Wurzburg

C’è una caratteristica fondamentale dell’arte veneziana del Settecento, ed è la sua universalità. Il Cinquecento è forse il secolo più grandioso della storia dell’arte veneziana, soprattutto per la presenza contemporanea dei tre “grandi” Tiziano, Veronese e Tintoretto, contornati di una serie di “minori” che si possono definire tali solo per la presenza degli altri tre. Tuttavia fra questi Tintoretto e Veronese produssero quasi esclusivamente per committenze veneziane: erano estremamente interconnessi al tessuto socio culturale della Serenissima cinquecentesca che forniva loro tantissimo lavoro, solidi guadagni e soddisfazioni sociali e culturali. Tiziano, in questo è un caso a parte, la sua produzione pittorica fu spesso rivolta all’estero, con committenze internazionali, fino ai massimi livelli (papa Paolo III e l’imperatore Carlo V) e questo ha fatto in modo che, unico fra i veneziani, ha sempre goduto di universale apprezzamento critico. Gli altri due hanno avuto i loro alti e bassi, ed è comprensibile, la loro opera è difficile da apprezzare se non si coglie la complessità del contesto.

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P. Veronese, Giunone ricopre Venezia di doni, 1554-6, Palazzo Ducale. Se c’è un’opera che ha valore mitopoietico per Venezia è sicuramente questa.

Il Settecento non fu invece così, si passi il termine, autarchico. In questo secolo, l’arte veneziana fu apprezzata a livello internazionale, artisti veneziani mandarono le loro opere ovunque e viaggiarono in tutta Europa: i palazzi tedeschi si riempirono di quadri veneziani e furono circondati da parchi abbelliti con sculture veneziane, Antonio Corradini scolpì opere che furono spedite in gran parte dei territori asburgici: Ungheria, Repubblica Ceca, Sebastiano Ricci visse a Londra, Francesco Fontebasso e Andrea Urbani lavorarono a San Pietroburgo, Fontebasso dipinse persino un’iconostasi e l’architetto Giacomo Quarenghi ebbe un ruolo fondamentale nella monumentalizzazione di San Pietroburgo e nel rinnovamento di Mosca, Rosalba Carriera fu apprezzatissima in Germania ed in Inghilterra, lo stesso Canaletto visse nel Regno Unito, Tiepolo lavorò in Germania, rifiutò l’invito della corte svedese e morì a Madrid, come era successo alla metà del secolo a Jacopo Amigoni.

Sicuramente l’elenco è riduttivo, ma è sintomatico dell’enorme diffusione dell’apprezzamento per la scuola veneziana del Settecento fra i contemporanei, nell’epoca in cui per tutta Europa si andavano diffondendo gli ideali dell’Illuminismo. Fu un veneziano anche l’immaginifico Francesco Algarotti, intellettuale e divulgatore, cresciuto alla scuola del frate Carlo Lodoli, eccentrica figura di intellettuale organico, e poi amico fraterno di Giambattista Tiepolo con cui discuteva spesso di pittura.

Algarotti, prendendo spunto dal museo lapidario istituito dall’amico veronese Scipione Maffei e dalla collezione di disegni esposta in casa del Lodoli stesso, arrivò a concepire un’idea di Museo Universale, che avrebbe dovuto essere concretizzata a Dresda, un museo pensato per rappresentare l’evoluzione dell’arte in tutta la sua storia e di cui si immaginava tutto, fino all’edificio.

“È una fabbrica quadrata con dentro un cortile. Nel mezzo di ciascun lato è un gran colonnato, o loggia corinzia che sporge in fuori; di qua e di la da essa sono due gallerie che ricevono il lume da cinque archi tramezzati da pilastri corinti e queste due gallerie mettono in due salotti, i quali al di fuori sono ornati da mezze colonne nel muro con nicchie bassorilievi tra i due […]. Ricevono essi il lume d’alto per via di quattro cupolini che riescono negli angoli dell’edifizio; e nel mezzo di ciascun lato s’alza una cupola maggiore che da lume ad un salone che resta dietro alla loggia e tra l’una e l’altra galleria. Queste sale erano così fatte per collocarvi le più belle statue e pitture, le quali ricevendo il lume d’alto, sarebbono comparse vieppiù belle ancora come si può vedere nella Tribuna di Firenze e come praticato aveva con un solo occhio in cima per riporvi il suo museo Rubens ad Anversa. Tutto l’edificio è coronato da una balaustra o poggiolo retto da uno stereobate nell’altezza del quale è cavata la scalinata delle logge”

Era un’idea, quella di esporre tutto lo sviluppo dell’arte, innovativa e opposta a quello che stava sorgendo a Roma, dove invece, ad esempio nei grandi allestimenti dei Capitolini e poi di Villa Albani, si privilegiava l’arte antica, in quanto classica e portatrice di valori ideali.

L’idea di Algarotti sopravvive solo in un dipinto “ideale” dell’amico Giambattista Tiepolo presentato a Federico Augusto di Sassonia, in cui il sovrano viene rappresentato come il suo illustre omonimo romano e Algarotti assume il ruolo di Mecenate e forse la loggia che appare sullo sfondo è il museo “ideale” del nostro.

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G.B.Tiepolo, Mecenate presenta ad Augusto le arti liberali, 1742, San Pietroburgo, Ermitage

Rimane però l’incredibile slancio ideale della cultura veneziana del Settecento a volersi fare sempre universale e per questo a spingersi in ogni angolo d’Europa, aprendo di fatto la strada a quello che fu il primo artista di fama intercontinentale della storia, Antonio Canova.

L’arte e l’oblio: in difesa dell’arte veneziana

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J. Tintoretto, Paradiso, Venezia, Palazzo Ducale, 1592 ca.

Venezia, come ricordava spesso Sergio Bettini, fu una capitale e come tale mantenne sempre viva una propria tradizione culturale  particolare, fatta di riflessioni che appaiono spesso diagonali a quella che è la simmetria concepita nel racconto della grande storia, ma proprio per questo è necessario conoscerle e studiarle. Il rapporto di Venezia con la storia dell’arte fatta in grande stile è spesso difficile, già Vasari non amava troppo la pittura veneziana fatta di colori vivaci, presi in prestito dalla luce particolare della Laguna, che troppo si distaccava dalla tradizione fiorentina, dove tutto segue una demarcazione precisa, costituita dai tratti secchi del disegno, che scandisce dove finisce un corpo e dove inizia qualcos’altro. Ovviamente a Venezia non può essere così, non si può dire con precisione dove termini l’acqua, non si può fermare il respiro incessante del mare che entra dalle bocche del lido, come ben sapeva Leonardo da Vinci. A Venezia, poi, la luce viene anche dal basso, perché si riflette sull’acqua, e capita che i palazzi siano costruiti “a rovescio” come Palazzo Ducale che è compatto nella parte superiore, ma sorge su colonne e ha fondamenta pericolosamente aeree.

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Palazzo Ducale, Venezia

Né poteva accettare la condizione sostanzialmente ereticale di Venezia quello che viene considerato il massimo storico dell’arte italiana del Novecento, Roberto Longhi, che vede in Tintoretto uno ‘sciapo’ accademico lodato “più per la bravura che per la fantasia; che è sempre un buon pretesto per far passare l’accademia sotto specie di furia”.

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J. Tintoretto, Annunciazione, Scuola Grande di San Rocco, 1582-84

Chiunque abbia messo piede dentro alla Scuola Grande di San Rocco o alla Madonna dell’Orto o a San Cassiano o in qualche altro luogo di Venezia in cui Tintoretto ha espresso se stesso non può che mettere in dubbio il giudizio di Longhi: Tintoretto è semplicemente un artista che vede le cose a modo suo e che va in ogni caso oltre le iconografie facilmente stabilite dalla tradizione, come ad esempio l’Annunciazione  di San Rocco con l’arcangelo e gli angeli che entrano in formazione sparsa all’interno di una casa semidiroccata dove Maria sta pregando, mentre all’esterno un falegname giovinetto (evidentissima allusione al nascituro Gesù) sta lavorando del legno, verosimilmente in forma di croce, sotto una lancia e una corona di spine, altri evidentissimi richiami alla Passione. Siamo di fronte ad un caso limite? Forse, ma di iconografie così avventurose nell’opera di Tintoretto se ne incontrano parecchie.

Eppure Longhi non era cieco: perché tanta ostilità nei confronti di Tintoretto? Lo capiamo forse leggendo i suoi giudizi su Giambattista Tiepolo, che fu accostato a Cecil de Mille, pioniere hollywoodiano dei colossal, ossia di rievocazioni storiche fatte con un gusto pacchiano ed esagerato. Oppure ancora Tiepolo fu descritto come un servitore di potenti che vivevano in una “città del vizio”, cantore di una città che, come il Titanic, ballava gioiosamente in attesa dell’iceberg. Tiepolo, pittore frivolo, era per Roberto Longhi, l’ideale contraltare di Caravaggio da lui riscoperto ed esaltato come neorealista ante litteram.

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G.B.Tiepolo, Immacolata Concezione, Udine, Oratorio della Purità, 1735

Definire frivolo Tiepolo significa ignorare una immensa produzione in cui egli raffigurò sempre la stessa donna bionda, austera, bellissima, regale come immagine ideale di ciò che l’uomo deve raggiungere nel suo percorso di ricerca terrena. E  avvicinarlo ad una concezione aristocratica di un mondo di ricchezza ignorante significa semplicemente non conoscere le dinamiche interne al patriziato veneziano e, più in particolare, la vicinanza di Giambattista alle cerchie illuministe della Venezia del Settecento, riunite intorno ai patrizi che erano stati educati dal “Socrate della Laguna”, Carlo Lodoli e poi in continuo e dialettico contatto con il console inglese Joseph Smith.

Ma, in fondo, per Longhi l’arte prescinde dal dato storico, è pura forma, frutto di creazione dal nulla, concezione filosofica ardita che lo porta a scagliarsi in modo pesante anche contro Antonio Canova definito “nato morto” perché considerato puro e semplice araldo del neoclassicismo, un’arte concepita a tavolino, fredda e distante, secondo Longhi.

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A. Canova, Amore e Psiche, Parigi, Louvre, 1793

Per quanto riguarda Canova, tra l’altro, potremmo notare come egli, ai suoi tempi, fosse biasimato da alcuni critici in quanto troppo sensuale rispetto ai canoni estetici del neoclassicismo. E quella sensualità, gli derivava dalla tradizione veneziana, dallo studio di un’arte che voleva costantemente essere realistica e proprio per questo sapeva trascendere dai confini della realtà creando la metafisica.

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A. Canova, Compianto sul Cristo Morto, Possagno, Tempio Canoviano, 1798-99

Uscendo di polemica, questa breve rassegna serve a far capire l’eccezionalità dell’arte veneziana, che si muove spesso secondo  schemi suoi propri, incomprensibili a chi non possiede le chiavi di quella cultura completamente parallela e insulare. Ad esempio, è impossibile concepire Venezia come città “aristocratica” in senso tradizionale, senza comprendere l’obliquità dell’aristocrazia veneziana, e l’eccezionalità di una città che aveva una struttura politica assolutamente unica, a cui si affiancava in senso parallelo l’azione dei ceti “cittadini”, con uomini che spesso erano più ricchi dei nobili, e che si esprimevano con la committenza artistica all’interno di quelle istituzioni particolari che erano le Scuole grandi o piccole.

Una storia dell’arte veneziana in quanto tale è ricchissima e soprattutto ricca di spunti, se ne sono occupati fior di studiosi (a titolo di puro esempio: Wladimiro Dorigo, Sergio Bettini, Ennio Concina, Rodolfo Pallucchini, Manfredo Tafuri, Lionello Puppi) e pure mettere insieme tutto è estremamente difficile, perché la vita è sempre sorprendente e offre di se stessa mille chiavi di lettura. C’è però un segmento dell’arte veneziana che è stato quasi indelebilmente cancellato dalle pagine della narrazione storico artistica. È il periodo che va dalla morte di Tintoretto all’inizio dell’attività di Tiepolo e Canaletto, sono all’incirca 120 anni di silenzio apparente, eppure vi lavorarono artisti che furono a loro modo grandi, come Palma il Giovane, vero erede della bottega dell’immenso Tiziano, oppure, più avanti nel corso del Seicento, personaggi eclettici e misteriosi come il cavalier Pietro Liberi, oppure grandi intessitori di leggende pittoriche come Giovanni Antonio Fumiani e Antonio Zanchi, per arrivare all’estroso, suadente Giambattista Ricci e al cosmopolita Louis Dorigny che di fatto aprirono la strada alle invenzioni di Giambattista Tiepolo. Ma ancora tanti altri sono i nomi che si potrebbero citare, per questo nei prossimi articoli tracceremo dei brevi profili di molti artisti vissuti in questo periodo, che lessero e rilessero la tradizione artistica veneziana in modo denso e personale.

Paolo Veneziano. Alle origini dell’arte nostra.

Paolo Veneziano, Pala Feriale, Venezia, Basilica di San Marco, 1345

Di fronte ad un’opera come la Pala Feriale realizzata da Paolo Veneziano per la Basilica di San Marco nel 1345 la nostra mente va in difficoltà.

Da un lato non possiamo non notare la bellezza e il potere che trasudano da quest’opera, con il suo metafisico sfondo dorato e le sue figure che sembrano apparire da esso come in una visione mistica, dall’altro lato siamo però colpiti da un sentimento opposto, quasi di alterità. L’arte di Paolo è “diversa” da quella a cui il nostro occhio e la nostra mente sono abituati, con essa siamo di fronte ad un linguaggi figurativo diverso da quello che è il nostro canone di bellezza, basato sull’armonia delle forme e su una serie di principi elaborati teoricamente nel Rinascimento e già presenti in nuce nell’opera di Giotto, di qualche anno precedente a quella di Paolo Veneziano.

Tuttavia ci sono due motivi, di segno opposto fra loro, che rendono l’arte di Paolo Veneziano diversa: da un lato c’è l’appartenenza alla tradizione veneziana, che aveva trovato, a partire dalla fine dell’XI secolo, una sua particolare via alla rappresentazione artistica della natura e della divinità.

Canfanaro (Istria) Abside della chiesa di Sant’Agata, XI-XII secolo

Dall’altro lato Paolo si avvicina invece ad una corrente artistica che si afferma dopo l’esperienza giottesca, cioè il cosiddetto “gotico internazionale”, così chiamato perché presente in varie parti del Nord Italia e d’Europa (ricordiamo che questi sono gli anni della “cattività avignonese” in cui il centro artistico della Curia papale è attivo in Francia). Il linguaggio del gotico internazionale non ripudia le conquiste di Giotto nella rappresentazione della figura umana, ma spesso cambia l’ambientazione, tende cioè alla metafisica, in esso le figure umane appaiono quasi dal nulla (come possiamo vedere appunto nella Pala Feriale di San Marco) e questo ha su di noi, che siamo abituati alla pittura “di storia” (cioè ambientata a tutti gli effetti in un ambiente umano) un effetto straniante.

In realtà, Paolo Veneziano non era certo rimasto all’oscuro delle novità portate da Giotto alla pittura, peraltro nella per lui vicinissima Padova: se osserviamo una delle prime opere dell’artista lagunare, il paliotto con le storie del beato Leone Bembo possiamo vedere un linguaggio propriamente giottesco.

Paolo Veneziano, paliotto con Storie del beato Leone Bembo. L’opera era stata realizzata per la chiesetta di San Sebastiano adiacente al convento di San Lorenzo di Castello (da non confondere con la chiesa a Dorsoduro) e si trova attualmente a Dignano d’Istria dove è stato portato in seguito alla distruzione della chiesetta nel 1810

Giotto, Nascita di Maria, Padova, Cappella degli Scrovegni, 1304-6

Soprattutto nelle sezioni laterali del paliotto, realizzato nel 1321, possiamo vedere la conoscenza delle opere di Giotto agli Scrovegni, soprattutto per la presenza delle architetture in cui si muovono i personaggi, fatte vedere con la tipica tecnica giottesca di “tagliare” una parete per permettere allo spettatore di assistere a ciò che avviene all’interno degli edifici. La figura centrale invece con la rappresentazione del beato Leone Bembo presenta già gli elementi “metafisici” con la figura isolata del protagonista offerto alla venerazione di chi guarda la tavola e soprattutto ci colpisce la sproporzione gerarchica fra la figura gigantesca del beato, raffigurato in posa bizantineggiante, e quella minuscola del committente, dipinto inginocchiato ai suoi piedi.

Un passo avanti Paolo lo fa con la splendida tavola realizzata per il monumento funebre del doge Francesco Dandolo, posto nella sala del Capitolo della basilica dei Frari realizzato nel 1339.

Paolo Veneziano, Il doge Francesco Dandolo presentato al Cristo da san Francesco, Venezia, Basilica dei Frari, 1339

 

Qui il passo avanti di Paolo è sia nella rappresentazione delle figure umane in senso realistico: possiamo vedere a colpo d’occhio che tutte le figure hanno le stesse proporzioni, ma guardiamo anche, per esempio, l’umanità con cui san Francesco presenta il doge al bambino divino appoggiandogli una mano sulla spalla in un gesto quasi tenero. Eppure Paolo fa un passo avanti anche nella sfarzosità con cui rappresenta le sue figure, a partire dal doge riccamente vestito, ma sono soprattutto le figure divine a trasudare colore e ricchezza, in particolare grazie alla presenza dell’oro che trapunta di stelle il manto della Vergine e le aureole, ma anche il giallo acceso della veste di Cristo e quello dei drappi tesi dagli angeli dietro il trono della Vergine che si perdono quasi sullo sfondo dorato. Il tutto serve a dare l’impressione della effettiva ascesa al Cielo di un uomo rappresentato perché tutti colgano la sua realtà fatta di carne e sangue, il defunto doge Dandolo.

Naturalmente la componente metafisica si accentua nella Pala Feriale di San Marco

soprattutto nella parte superiore, con i santi a mezzo busto che sembrano apparire e formarsi direttamente dallo sfondo dorato, queste enormi figure sembrano quasi schiacciare con il loro peso il registro inferiore in cui vengono raccontate le miracolose storie di san Marco, che sono invece affollate di figurine, che sembrano brulicare tanto sono minuscole in confronto ai massicci santi del registro superiore.

Paolo Veneziano, Ritrovamento del corpo di san Marco, particolare della Pala Feriale

Il ritrovamento miracoloso del corpo di san Marco, preso singolarmente, è una scena ardita e vivissima, una scena di massa che tralaltro si svolge di fronte ad una splendida facciata di marmo che ci restituisce l’idea della Venezia medievale, con la vivissima scena del corpo del santo che esce dal sepolcro di marmo rosso al centro della scena che viene indicato da un personaggio a sua volta vestito di rosso sgargiante.

Tuttavia, nell’insieme della Pala questi dettagli si perdono: nella composizione totale i dettagli sono difficili da percepire, ma questo avviene perché queste scene hanno una funzione particolare, che ha a che vedere con il culto, ma anche con un ruolo puramente sacrale svolto dalla Pala Feriale. Questa era infatti posta sull’altar maggiore della Basilica marciana, ma la sua funzione principale era quella di coprire, facendo quasi da custodia, la grandiosa Pala d’Oro, capolavoro di oreficeria realizzato in diversi secoli e per questo uno dei simboli del potere veneziano nel suo insieme.

Pala D’Oro, Venezia, Basilica di San Marco, X-XIV secolo

La Pala d’Oro, costituita da circa ottanta formelle con rappresentazioni in smalto di singoli santi o di scene evangeliche, costituisce non solo un capolavoro di oreficeria, ma anche e soprattutto uno dei fulcri dell’ideologia veneziana: il dono principale fatto dalla Repubblica al suo Dio e offerto nella chiesa dedicata al suo Patrono. In quanto tale è un oggetto che viene percepito assolutamente come sacro, dunque non può essere esposta costantemente, ma solo nei giorni liturgicamente più importanti, a sottolineare la solennità di quelle occasioni non solo per la liturgia della Chiesa ma anche per quella dello Stato.

Proprio per questo motivo la Pala Feriale, che copriva la Pala d’Oro per la maggior parte dell’anno, doveva trasmettere soprattutto la sensazione della sacralità e per questo motivo, nel realizzarla, Paolo Veneziano accentua gli elementi metafisici “sacrificando” il racconto della pittura di storia.

Le origini di Venezia – come nasce una città

venezia_pesce1Cosa rende Venezia unica?

Certamente il suo rapporto con le acque, la sua unicità di città isola, che fino all’Ottocento non disponeva di un collegamento con la terraferma, cosa che permette ai suoi abitanti di avere ancora una geografia particolare in cui il mondo si divide in “città” e “campagna”, fu proprio questa particolarità a spingere Petrarca a definire Venezia “mundus alter”, un mondo a sé. Per tutto il medioevo questa alterità è stata quella di una soglia, porta e porto privilegiato per l’Oriente, per Costantinopoli, vera roccaforte dell’Impero e per Gerusalemme, Città Santa e centro del mondo.

La particolarità di Venezia non è quella di vivere un rapporto con l’acqua: fino alla Rivoluzione Industriale tutte le città per vivere hanno bisogno di fiumi e canali, che servono da vie di comunicazione e da forza motrice per le attività manifatturiere, solo dopo l’arrivo della macchina a vapore il mondo cambierà definitivamente e anche Venezia perderà la sua insularità, ma si avvierà al declino definito dal “troppo scomodo” e mascherato dal “troppo bello”.

Il rapporto di Venezia con le acque era però diverso già nei tempi antichi, l’acqua della laguna non si presta ad essere imbrigliata per spingere i mulini, non è adatta alle attività produttive, non è una via di comunicazione che si affianca alle altre: è l’ambiente in cui la città è immersa, l’ habitat naturale che spinge gli abitanti a vivere di commercio e li avvolge in una luce che non si trova in nessun altra parte del mondo.

Ed è proprio il rapporto diverso con la luce che rende Venezia “mundus alter” e la spinge a crearsi una sua leggenda sulle origini.

La leggenda più popolare è quella che vede Venezia fondata dai profughi veneti scappati di fronte all’orda di Attila alla metà del V secolo dopo Cristo, quando le “nettunie mura” cioè le acque della laguna si sarebbero rivelate un ostacolo insormontabile per i barbari che venivano dalle steppe dell’Asia, dove non avevano mai visto il mare. La leggenda contraddice però se stessa chiamando “trono di Attila” la sedia in pietra che si trova nell’isola di Torcello, che probabilmente era invece lo scranno su cui il magistrato bizantino esercitava la giustizia. In realtà le isole della laguna probabilmente erano sempre state popolate da piccole comunità di pescatori e il litorale adriatico ospitava delle ville patrizie romane, per cui una “Venezia” in qualche modo è sempre esistita in tempi storici.

Leggenda che però indica una chiara traccia storica da seguire, anche se certamente dobbiamo pensare non certo ad un fatto episodico, come la calata di Attila, ma piuttosto ad una serie di fatti che hanno causato un determinato complesso socio – economico che ha portato alla fondazione di una città – isola. Possiamo considerare per tutta Italia, e in particolare per il nord – est della penisola il periodo delle invasioni barbariche lungo almeno fino al X secolo, poi dopo il Mille abbiamo un generale processo di rinascita urbana, ma intanto Venezia si è già sviluppata e domina sull’Adriatico producendo ricchezza e medita sul suo mito da trasmettere al mondo.

Riprendiamo dunque i fatti storici, anche se poi dovremo tornare alle leggende perché solo queste ci forniscono degli appigli per sviluppare un discorso. Il V secolo è quello che tutti conoscono per la fine dell’impero romano sotto la spinta dei Barbari, l’impresa di Attila si colloca nel 452 ed ha un forte potere simbolico, come la deposizione di Romolo Augustolo, ultimo imperatore d’occidente, da parte del suo generale Odoacre, ma formalmente cambiò poco perché questi governò sempre per conto di Bisanzio, così come fece Teodorico che lo spodestò pochi anni dopo con i suoi Ostrogoti. Teodorico era stato anzi allevato a Costantinopoli e volle mantenere intatte gran parte delle istituzioni romane che garantivano il funzionamento dell’amministrazione pubblica, sotto il suo regno le città della Venetia, come Padova, Concordia e Aquileia continuavano a prosperare.

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Ravenna, mausoleo di Teodorico. Nell’edificio si può percepire a prima vista come sia “figlio” dell’architettura romana.

Il vero momento di crisi, la fine di un mondo, avvenne nel VI secolo con la guerra tra i Goti e i Bizantini di Giustiniano, decisi a riportare le aquile imperiali sulla penisola. Questa guerra, fra vari rovesciamenti di fronte e tradimenti, durò quasi vent’anni, dal 535 al 553 e devastò letteralmente la penisola, con le campagne che furono più volte saccheggiate, i raccolti persi, i commerci interrotti. In più, a fine guerra l’amministrazione giustinianea volle imporsi in tutti i campi, compreso quello religioso, indicando rigide regole da seguire e dichiarando eretiche alcune pratiche religiose che fino ad allora erano state consentite. Lo scisma, detto dei Tre Capitoli, ebbe come avanguardie le chiese di Milano e di Aquileia, che allora erano considerate allo stesso livello di quella romana come importanza teologica. Fu proprio in questa situazione di turbolenza continua che i Longobardi calarono in Italia guidati da Alboino nel 568 dopo Cristo. Anche in questo caso l’invasione non fu un’onda travolgente, ma un processo lungo che frammentò l’Italia, soprattutto quella settentrionale, in “isole” longobarde e bizantine in uno stato di guerra semipermanente. L’intera regione costiera dell’Adriatico, da Grado a Ravenna rimase compatta sotto il dominio bizantino, ma in essa era molto più sicuro muoversi via mare che via terra: per questa ragione si può pensare che le isole della laguna abbiano cominciato a prosperare come porto in una situazione come questa in cui costituivano una tappa obbligata e sicura. In più nel 601 dopo Cristo Padova fu conquistata dai Longobardi e praticamente distrutta, in quell’occasione il suo vescovo si trasferì a Malamocco e vi rimase almeno fino al 680, per cui possiamo pensare che l’isola fosse ritenuta adatta ad ospitare un personaggio di tale rango (ricordiamo che la Padova tardo antica era una delle città più ricche d’Italia).

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L’Italia dopo la calata dei Longobardi di Alboino (568 d. C.)

Il mito – storia (o la storia riportata dal mito) assegna il merito di aver organizzato una città sulle isole della laguna ad un altro vescovo la cui sede era stata distrutta dai Longobardi, Magno di Oderzo. Questa città fu conquistata nel 638 e i suoi abitanti, guidati dal loro prelato, avrebbero fondato una città più sicura, protetta dalla laguna, ad Eraclea. Successivamente il vescovo intraprese una “visita pastorale” fra le diverse comunità della laguna, che frequentavano la chiesa di San Giacomo a Rivo Alto, fondata il 25 aprile 421, data che tradizionalmente segna la nascita di Venezia. In otto luoghi della laguna il santo vescovo ebbe delle visioni di santi e in ognuno di questi luoghi fondò una chiesa (San Salvador, Santa Maria Formosa, Santi Apostoli, San Giovanni in Bragora, San Zaccaria, Santa Giustina, San Raffaele, San Pietro di Castello), adesso la città aveva nove parrocchie, numero importante da un punto di vista simbolico, che ci indica come si possa giungere a considerare nata Venezia (di Magno abbiamo già parlato https://wordpress.com/view/villeggiare.wordpress.com).

Risale invece alla fine dello stesso secolo, il VII, la nomina del primo doge, Paolo Lucio Anafesto, che nel 697 fu nominato dux, cioè comandante militare con potestà grossomodo sull’area della luguna e sede ad Eraclea, che anche in questo caso può essere considerata la “madre” di Venezia, ci vorrà circa un secolo perché, nel 742, Venezia sia pronta ad ospitare la sede del Doge, ora non più nominato da Ravenna, cioè dalla burocrazia bizantina, ma eletto direttamente dal popolo delle lagune. La sede del magistrato sarà la stessa scelta a suo tempo dal vescovo di Padova, Malamocco, allora molto più estesa.

Il IX secolo è fondamentale per la crescita di Venezia. Al di fuori dei confini del Dogado, ai Longobardi si sostituiscono i Franchi e anche loro cercano di unificare l’Italia Settentrionale sotto il proprio dominio, scacciando definitivamente le guarnigioni bizantine. Venezia è teatro di uno scontro fondamentale in questa lotta: nell’810 una flotta franca si addentra nella laguna, ma i veneziani la eludono e la portano in un terreno favorevole, nei fondali bassi di fronte all’isola che poi sarà chiamata Giudecca dove, servendosi di imbarcazioni dal fondo piatto, hanno facilmente ragione delle ingombranti navi franche che non riescono a manovrare. Proprio a celebrazione di questa vittoria la zona assume il nome di Zattere e il doge Agnello Partecipazio trasferisce la propria sede a Rialto, nel cuore dell’area urbana identificata dalle parrocchie fondate dal vescovo Magno. Ormai Venezia è una città e il doge è sempre più indipendente e importante, e lo diventa ancora di più quando in città viene firmata la pace tra Franchi e Bizantini.

Dal punto di vista simbolico manca ora un solo tassello per assistere alla nascita di Venezia come la conosciamo, ma è il tassello più importante, un punto di unificazione che sia superiore alla figura politica del Doge.

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San Marco raggiunge Venezia nell’828 dopo Cristo. La leggenda vuole che alcuni mercanti veneziani ne abbiano trafugato il corpo da Alessandria d’Egitto, dove l’evangelista era morto martire dopo aver fondato una delle chiese più importanti del cristianesimo primitivo. Tuttavia san Marco non era solo il fondatore della lontana chiesa di Alessandria, era considerato anche colui che aveva istituito la chiesa di Aquileia, sede dell’unico patriarca dell’Occidente che aveva giurisdizione anche sulla laguna e sulla città di Venezia. Portare in città le reliquie di san Marco era un importantissimo segno politico, significava avere il simbolo necessario ad unificare decisamente le genti delle lagune e ad aspirare a sorpassare Aquileia non solo sul piano ecclesiastico ma anche e soprattutto su quello politico.

Tuttavia, perché Venezia assuma definitivamente un ruolo di primissimo piano nello scacchiere politico dell’Italia settentrionale e dell’Europa bisogna attendere circa un altro secolo. Il X secolo è un periodo di grandi movimenti di popoli, i Normanni cominciano a muoversi dall’estremo nord verso sud e verso est, mentre da sud si intensificano sempre di più le scorrerie arabe dalle basi navali della Sicilia, ma il pericolo maggiore per l’Italia arriva da est e sembra essere la riedizione dell’assalto dell’orda di Attila. Sono gli Ungari, un popolo di origine asiatica stanziatosi in Pannonia(l’attuale Ungheria) nell’896 dopo Cristo. Da lì iniziano una serie di scorrerie verso il Friuli, il Veneto e la Lombardia, che dureranno a fasi alterne fino al 955, quando gli Ungari saranno definitivamente sconfitti dall’imperatore Ottone I. Venezia, grazie alla protezione delle acque, rimarrà non toccata dagli assalti ungari, anzi, respingerà un timido attacco navale e ne prenderà lo spunto per inseguire i nemici fino dall’altra parte dell’Adriatico, mettendo per la prima volta le mani sui porti della costa dalmata. In questo modo il dogado si estenderà sulle due sponde del mare e sarà pronto a spingersi ancora oltre e sempre più a Oriente nei secoli successivi. Nello stesso periodo, intanto, comincia a definirsi la peculiare forma politica della Serenissima, con un consiglio che si affianca al Doge nella gestione degli affari di stato.

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Pietro II Orseolo (doge dal 991 al 1002), guidò le flotte veneziane contro i pirati dalmati e liberò Bari dai Saraceni. Successivamente si ritirò dal governo ritirandosi nell’abbazia di San Michele di Cuxa, seguendo l’esempio del padre anch’egli doge.

In questo momento, alle soglie del Mille, la città è pronta a spiccare il balzo che la renderà una grande potenza economica e politica; le sue navi sono uno dei maggiori elementi di contatto fra Oriente e Occidente e soprattutto il mondo occidentale sta cambiando. Dopo la fine delle incursioni degli Ungari, c’è stato un periodo di relativa calma e le diverse città italiane ne hanno approfittato, crescendo di popolazione e producendo più materie prime che hanno portato a una crescita dei commerci, dapprima su piccola scala, poi via via su spazi sempre più ampi, e Venezia con le sue flotte è sempre più pronta a rischiare e guadagnare, spesso accorrerà in difesa delle guarnigioni bizantine per difenderle da Arabi e Normanni e ne ricaverà in cambio privilegi commerciali e esenzioni dalle tasse per i suoi cittadini, che potranno avere posizioni privilegiate d’accesso ai beni di lusso che si trovano in Oriente.

Lentamente la città prende forma, nel XII secolo è verosimilmente certa della sua potenza e grandezza, a giudicare dai simboli che vediamo nelle grandi cattedrali di Torcello e Murano che risalgono a quegli anni, in entrambe è presente, nell’abside, la raffigurazione gigantesca a mosaico della Vergine ammantata di blu e immersa nella luce sfavillante dell’oro. Verosimilmente si tratta di una raffigurazione di Venezia stessa, la città vergine perché immacolata, mai toccata dai nemici, e immersa nell’oro della luce che si riflette sulle stesse acque che la proteggono.

Anche la città cresce e si definisce nel corso dei secoli: alla fine del XII, il doge Sebastiano Ziani (regnante dal 1172 al 1178) diede ordine al primo architetto veneziano di cui si conosce il nome, Nicolò Baratiero di costruire il primo Ponte di Rialto. Si tratta di una decisione storica perché questo è il primo ponte ad attraversare il Canal Grande (e per diversi secoli sarà l’unico), che sorge nel punto centrale della cittàil vero e proprio ombelico, situato nel luogo dove le merci e il denaro vengono continuamente messi in circolo e “digeriti”. Il ponte era in legno e soprattutto poteva aprirsi a metà per far transitare le navi più grandi, con i loro alti alberi maestri, e per l’epoca doveva trattarsi di un’opera ingegneristica veramente notevole.

Allo stesso Nicolò Barattiero è attribuita l’erezione di un altro dei simboli di Venezia, le due colonne con i simboli di san Marco e san Teodoro che costituiscono la porta da mar di Piazza San Marco, la via d’accesso alla città dalla parte del mare, lo scalo che doveva impressionare i visitatori di alto rango che giungevano al palazzo del Doge.

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Le due colonne di Piazza San Marco furono portate da Costantinopoli via mare. La leggenda vuole che una terza colonna sia caduta in mare quando fu scaricata dalla nave.

Dopo sei anni di dogado, Sebastiano Ziani morì, e il suo posto fu preso da una delle figure più impressionanti della storia di Venezia, Enrico Dandolo. Quando fu eletto, il Dandolo aveva 85 anni e per di più era cieco, in seguito ad un “incidente” in una missione diplomatica a Costantinopoli, eppure non esitò a lanciarsi in guerra contro il regno di Ungheria, appoggiato dalla repubblica marinara di Pisa, per il possesso della città di Zara. Nel 1202 la città sembrava definitivamente persa, ma in quello stesso anno fu dichiarata la quarta crociata e i sovrani d’Europa si rivolsero a Venezia per il trasporto delle truppe verso la Terra Santa. Il Dandolo accettò, anzi promise che i Veneziani si sarebbero impegnati nei combattimenti, ma chiese un prezzo per il trasbordo: l’aiuto crociato per la conquista delle città di Trieste, Muggia e Zara.

Nel 1203 i crociati mantennero l’accordo, anzi si lasciarono andare con entusiasmo al saccheggio di Zara prima di ripartire per la guerra santa, ma nella città dalmata avvenne un altro incontro con il destino, sotto le spoglie di Alessio Angelo, principe spodestato dell’impero bizantino, che promise ai crociati aiuto militare e risorse economiche se fossero andati a Costantinopoli a rimettere il padre sul trono. Così la crociata intraprese la sua seconda e fatale deviazione, la città imperiale cadde facilmente, ma le promesse bizantine non furono mantenute con altrettanta facilità, così i guerrieri di Cristo decisero di prendersi con le loro stesse mani quello che volevano da una delle maggiori città della cristianità.

Gerusalemme rimase in mano agli infedeli, ma i crociati si spartirono Costantinopoli ed un bottino immenso. Dandolo morì a Costantinopoli nel 1205, a 98 anni, ma il suo successore Pietro Ziani si trovò a disposizione un’eredità di tesori inestimabili per portare a compimento il lavoro iniziato in Piazza San Marco da suo padre Sebastiano. E fu sotto il suo dogado che nacque la grande basilica che oggi conosciamo.

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Enrico Dandolo morì a Costantinopoli e fu sepolto all’interno di Santa Sofia, da conquistatore.

Un manifesto ermetico nell’arte italiana del Quattrocento

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Pinturicchio, 1492- 94, Musei Vaticani, Appartamento Borgia, Sala dei Santi. Soffitto: la storia di Iside e Osiride, morte e resurrezione

C’è un’opera d’arte che può essere considerata il manifesto pittorico di quella complessa costellazione di idee storiche, teologiche e magiche che si affermò in Italia nella seconda metà del Quattrocento e che, prendendo spunto da uno delle sue più provocanti sfumature, può essere definita in modo veloce Ermetismo. Si tratta di un ottagono dipinto da Pinturicchio tra il 1492 e il 1494 e incastonato nel soffitto della Sala dei Santi nell’Appartamento Borgia in Vaticano che rappresenta Iside tra Ermete Trismegisto e Mosè.

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Iside tra Ermete Trismegisto e Mosè

L’opera è inserita in un contesto molto importante e articolato, all’interno di un ciclo pittorico complesso, creato da uno dei più completi “pittori umanisti” che agiva come ultimo microfono di un ambiente culturale a sua volta molto articolato e interessante. In questa sede non forniremo un’analisi iconologica dell’intero ciclo di affreschi, ma ci concentreremo sulla singola formella pittorica, in quanto già essa costituisce un primo “geroglifico” che deve essere sciolto in linguaggio moderno per permetterci di affrontarlo con i mezzi del pensiero comune. Pertanto limiteremo ora l’analisi contestuale ad alcuni accenni.

L’Appartamento Borgia prende il nome dal papa che lo fece costruire e affrescare, Alessandro VI. Il celebre e chiaccherato Alessandro Borgia, padre di Cesare e Lucrezia, ricordato dalla storia come libertino impenitente e uomo assetato di potere. Alessandro VI non fu solo questo, ma spesso la storia si concentra su alcuni aspetti degli uomini per poterli dannare ed etichettare, per poter scivolare via ed apostrofare la grande costruzione decorativa dell’Appartamento come la follia di un uomo lussurioso di donne e potere.

Sia chiaro che ad Alessandro le donne piacevano, in particolare una, Giulia Farnese, che è spesso ricordata come “Giulia la bella”, più volte ritratta da artisti proprio per la sua bellezza e per la posizione di potere che le dava la vicinanza con il papa.

I Farnese erano una famiglia di militari, originaria della zona dei laghi del viterbese, piccoli feudatari che da secoli occupavano un ruolo marginale nelle cronache dello stato pontificio. Uscirono da questo stato di marginalità proprio grazie alla bellezza di Giulia e alle qualità di suo fratello Alessandro, che il Borgia nominò cardinale poco dopo essersi insediato sul soglio pontificio; il popolo romano naturalmente mormorò, storpiò il cognome del neo-porporato in “Fregnese”, ma quell’uomo avrebbe influenzato la politica della chiesa praticamente per un secolo, prima da cardinale, poi come papa Paolo III e persino dopo essere calato nella tomba, attraverso il nipote (figlio di suo figlio Pier Luigi) che si chiamava anche lui Alessandro. La storia della famiglia Farnese fu dunque lunga e gloriosa, destinata ad avere un peso nelle vicende politiche dell’umanità intera e si riassumerà in un altro geroglifico, la grande rocca pentagonale di Caprarola, ma è tempo di tornare all’inizio di questa storia di potere e al giovane Alessandro Farnese.

Intorno al giovane cardinale si era raccolta una cerchia di intellettuali, tra cui spiccavano per particolarità Pomponio Leto, figlio illegittimo di un principe del Regno di Napoli e fondatore di un’Accademia platonica in cui pare si adorassero gli dei della Roma pagana e Flavio Mitridate, un singolare ebreo convertito siciliano che aveva insegnato i principi della Cabala Estatica a Pico della Mirandola, poi era caduto in disgrazia, era stato costretto a fuggire in Germania. Successivamente Mitridate tornò in Italia, dove pendeva su di lui un bando di cattura, infatti giunse a Viterbo e fu imprigionato, ma dal carcere scriveva comodamente al cardinal Farnese che lo mise in contatto, come maestro di lingue, con Giovanni Nanni, detto Annio da Viterbo, storico poligrafo che aveva esplorato a fondo le storie più antiche che era riuscito a trovare al di fuori della “classicità”, aveva studiato attentamente le cronologie esposte da Giuseppe Flavio nel “Contro Apione” e lì aveva colto i riferimenti allo storico egiziano Manetone e a quello caldeo Berosso, e li aveva studiati. Tornò da questo viaggio virtuale con la convinzione della profonda antichità di Viterbo e degli Etruschi, che avrebbero potuto attingere a fonti sapienziali più antiche e “pure” di quelle a disposizione di Roma e soprattutto Annio era riuscito a rintracciare le origini di due famiglie della nobiltà pontificia, i Farnese, che sarebbero stati discendenti di Osiride e i Colonna, che avrebbero avuto come progenitore Ercole Libico.

Queste genealogie sono particolarmente importanti per il nostro scopo, in quanto il programma iconografico della Sala dei Santi tende esplicitamente a nobilitare le origini dei Borgia, facendo coincidere il toro del loro stemma con il bue Api, figlio di Osiride, che sarebbe stato il progenitore della famiglia papale. Naturalmente fu Annio a costruire questo albero genealogico e a suggerire almeno parte del programma iconografico a Pinturicchio, e altrettanto naturalmente il loro incontro fu propiziato dal cardinal Farnese.

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L’Egitto nei modi cortesi e misteriosi di Pinturicchio prende spunto dal racconto fantastico e grandioso di Annio da Viterbo

Un aspetto molto importante di questo lavoro di genealogia mitologica compiuto da Pinturicchio e Annio è quello di mostrarci come i Farnese e i Borgia discendessero dalla stessa nobile origine e che la loro unione non avrebbe potuto che riportare a Roma l’Età dell’oro, quella in cui Osiride regnava e donava le sue conoscenze agli uomini.

E proprio la conoscenza è al centro dell’ottagono che è al centro di questo contributo. Per affrontare questo tema dobbiamo velocemente accennare però al programma mitologico espresso nella Sala dei Santi. Si tratta dell’adattamento “egiziano” della storia di Zeus e Io già molto utilizzato in epoca medievale e qui ulteriormente complicato per essere utilizzato insieme alle genealogie di Annio.

Zeus si innamorò della splendida fanciulla Io, Hera, gelosa come al suo solito, rapì la donna, la trasformò in una giovenca, la mescolò all’interno di un armento, che pose in Egitto e affidò alle cure del pastore Argo, che non dormiva mai perchè aveva cento occhi e qualcuno aperto riusciva a tenerlo sempre. Qui entra in gioco quello che era allora il più recente frutto delle scappatelle di Zeus, Ermete, che appena nato aveva dato prova di ingegno inventando la lira. Il padre, compiaciuto dall’astuzia del rampollo, gli affidò l’incarico di liberare l’altra sua amante; Ermete riuscì a far addormentare completamente Argo suonandogli una nenia e poi lo uccise, liberando così Io che divenne nota come Iside e sposò Osiride, re d’Egitto, dando vita alla discendenza da cui sarebbero nati i Borgia…

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Pinturicchio, Ermete uccide Argo

Nel racconto mitologico, quando io “diventa” Iside ne assume tutte le caratteristiche teologiche di dea della magia e della Sapienza che caratterizzavano questa divinità nel culto egizio prima e greco-romano poi e quindi, quasi come se fosse un lieto fine, la vediamo nell’ottagono di Pinturicchio, al centro della scena, ai suoi lati si trovano, come fossero dei discepoli, Ermete (che riconosciamo perchè è lo stesso personaggio che vediamo negli altri episodi. Il suo volto reca una strana somiglianza con quello di Raffaello, che all’epoca aveva circa 10-12 anni e forse era già in contatto con Pinturicchio, che qualche anno dopo avrebbe seguito a Siena) e un altro personaggio vestito di rosso e dal volto nobile, che sul capo vede spuntare due piccole corna, che lo identificano con Mosè.

La prima cosa che notiamo è che il dio Ermete viene subito “fuso” con l’egiziano Ermete Trismegisto, mentra apprende la sua lezione con Iside-Io è molto giovane, ma in fondo secondo il mito era nato da poco, la seconda cosa, abbastanza sorprendente è che lo stesso Mosè è molto giovane, un’iconografia molto rara nel Rinascimento, dove subito pensiamo al maestoso vegliardo michelangiolesco, ma piuttosto diffuso in età tardo antica e medievale (ad esempio nei mosaici di Santa Maria Maggiore del V secolo).

Da un lato può non sembrare strano che il principe dei pittori umanisti, peraltro consigliato dall’archeologo Annio, sia andato a recuperare un’iconografia “classica” e antiquariale, dall’altro non possiamo trascurare che questa scelta iconografica si adatta perfettamente ad un contenuto che l’immagine sembra voler trasmettere. Mosè è in questo caso ancora un allievo della Sapienza eterna incarnata da Io/Iside, discute e disputa, a differenza di Ermete che sembra completamente tacere, ma il futuro profeta è sempre un allievo, al tempo del suo discepolato in Egitto, prima di ricevere la Rivelazione sul Sinai. Filone Alessandrino, il grande interprete della Bibbia, contemporaneo della nascita del Cristianesimo diceva che Mosè era stato un sacerdote egiziano di altissimo grado e santo Stefano, negli Atti degli Apostoli, dice che egli era istruito in tutta la sapienza (magica) degli egiziani. Queste testimonianze ci mostrano “cosa” Pinturicchio abbia voluto rendere in immagini, ma ci sono altre considerazioni da fare, che prendono le mosse dalla presenza di Ermete Trismegisto all’interno del nostro ottagono.

Quando Marsilio Ficino, circa 30 anni prima della realizzazione della nostra opera, tradusse per la prima volta dal greco in latino il Corpus Hermeticum, la raccolta di scritti attribuiti al grande sapiente egiziano Ermete Trismegisto – considerato dal Padre della Chiesa Lattanzio uno dei pagani che aveva in qualche modo compreso le verità rivelate nella tradizione giudaico cristiana – ritenne opportuno far precedere alla sua traduzione un preambolo in cui collocava cronologicamente la figura del Trismegisto e diceva esplicitamente che egli era vissuto in Egitto qualche generazione dopo Mosè.

A Ficino interessava Ermete come uno dei filosofi che avevano costituito quella che lui chiamava Prisca Theologia, che potremmo tradurre come scienza primordiale del divino, una catena iniziatica di figure che culminava con il principe dei filosofi, il grande Platone. Tuttavia per Ficino era importante far notare che Mosè era vissuto prima di quello che lui stesso diceva essere il più antico tra questi filosofi, perchè in questo modo si poteva affermare che la “vera” rivelazione era quella contenuta nella Bibbia (di cui Mosè era la “figura d’autorità), mentre ai pagani egiziani, caldei e greci era stata concessa una capacità razionale di avvicinarsi ai contenuti della rivelazione per poterla poi abbracciare quando sarebbe stata diffusa dopo l’avvento del Messia. Insomma, il testo ficiniano tende prudenzialmente a sfumare l’importanza della sapienza “pagana” rispetto a quella mosaica e lo fa semplicemente dicendo che Mosè era più antico, dunque più vicino alla purezza della Rivelazione di Ermete.

L’immagine che stiamo analizzando contraddice questo assunto con la semplice evidenza pittorica, il Trismegisto è certamente più giovane di Mosè, ma è chiaramente un suo contemporaneo e soprattutto stanno ricevendo lo stesso insegnamento, dalla stessa fonte, annullando le prudenze ficiniane.

C’è un altro testo iconografico, più o meno conntemporaneo a quello di Roma, in cui si esplicita un messaggio molto simile, e si trova a Siena, all’interno dello straordinario pavimento a tarsia marmorea del Duomo (dove lavorano, detto per inciso, anche Pinturicchio e Raffaello). Appena si entra in cattedrale non si può non notare la figura possente e carismatica del Trismegisto, questa volta rappresentato come un vecchio con una lunga barba bianca e caratterizzato da un altissimo copricapo “all’orientale” che sta consegnando un libro ad alcuni personaggi che si inginocchiano con riverenza di fronte a lui. L’immagine è accompagnata da una didascalia in cui il nostro filosofo è esplicitamente definito “contemporaneo di Mosè”, negando dunque non con le immagini ma con le parole le affermazioni di Ficino.

Tuttavia se osserviamo la tarsia senese in un contesto più ampio sembra che si possano trovare degli elementi che fanno tornare in gioco, sotto un’altra specie, la prudenza del filosofo fiorentino. Infatti la particolarità del Duomo senese è proprio il suo pavimento, che costituisce un vero e proprio tappetto di immagini che accolgono il fedele appena entra in chiesa e lo accompagnano materialmente e mentalmente verso il fulcro teologico costituito dal Santissimo. Si tratta di immagini che fanno riferimento al passato, tratte dall’Antico Testamento oppure immagini di Sibille (testimoni pagane di Cristo), oltre allo stesso Trismegisto. Possiamo dunque pensare al grande pavimento senese (la cui realizzazione ha richiesto secoli) come ad un percorso che porti alla verità: in questo percorso la posizione dell’immagine di Ermete Trismegisto è la stessa che troviamo in Ficino, egli è il primo dei prisci theologi, colui che indica la via, pur essendo materialmente il più lontano dalla verità rivelata. Trismegisto sta consegnando ai suoi discepoli un libro, mentre un cartiglio dice “Suscipite litterae et leges Egyptii”, che di solito viene tradotto “prendete, o Egiziani, le lettere e le leggi”, ma potrebbe anche essere tradotto come “Assumete le lettere e le leggi degli Egiziani”, rivolto a tutti indistintamente, quasi ad indicare che assumere i costumi del popolo egiziano, osservare gli insegnamenti di Ermete sia il primo passo di una via che conduce alla Rivelazione personale. Trismegisto ha in mano un libro, la forma fisica, solida, di un insegnamento che però è soprattutto spirituale, in questo senso egli rappresenta il primo passo di un cammino, non tanto per il contenuto specifico della sua rivelazione, ma perchè indica lo studio delle lettere e la disposizione a seguire esteriormente le leggi della società come il primo passo di un cammino molto lungo, è l’accenno all’essenza di un percorso iniziatico.

Continua…

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Ultimi anni del XV secolo, Siena, Ermete Trismegisto nel Pavimento del Duomo

Padova e il 900. Una modernità a lungo attesa

Schermata 2016-04-04 alle 16.33.58-2Padova è una città complessa e multiforme, una realtà ormai trimillenaria che nel corso dei secoli ha più volte mutato volto. C’è la Padova Antica, che si esprime in segni sparsi, ma parla con voce più forte dalla basilica di Santa Giustina, che con il sacello di san Prosdocimo ricorda un cristianesimo antichissimo. C’è poi la padova comunale, la grande realtà che lotta contro Ezzelino III da Romano e edifica la grande basilica di Sant’Antonio e il meraviglioso Palazzo della Ragione, la realtà che si esprime attraverso la lingua dotta dell’Università e che, prima di abbandonare il palcoscenico, lascia un canto del cigno come la Cappella Scrovegni di Giotto, segno di un passaggio ad un’età nuova, quella dei “signori”. I Carraresi cambieranno il volto alla città rendendola una realtà fra le più importanti d’Italia e persino d’Europa, capace di dialogare con l’imperatore Carlo IV, e di attrarre un intellettuale di punta come Francesco Petrarca. Quest’epoca si eprime soprattutto nell’arte elegante e raffinata di Guariento e Giusto de’ Menabuoi, non solo meri eredi di Giotto, ma creatori di una lingua che profuma già di Rinascimento in pieno Trecento. Segue la Padova veneziana, la città rinascimentale, avvolta nelle sue mure, le più lunghe d’Europa, all’interno delle quali nasceva una città nuova, ricca di palazzi, ma soprattutto dedicata all’esplorazione scientifica con il suo antichissimo Orto Botanico e il Teatro Anatomico, segni di una medicina che cominciava ad essere scientifica in senso moderno, e infine è la Padova veneziana che si congeda con un grande segno urbano, la risistemazione del Prato della Valle, piazza antichissima ed amplissima, ad opera di Andrea Memmo ormai nel 1775.

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Siamo in una Padova che sta già lottando per diventare moderna, che con Giuseppe Toaldo e Giovanni Poleni sta cercando di aprire nuove vie alla scienza, ma che vedrà tante difficoltà. Per il governo austriaco la modernità sarà soprattutto la linea ferroviaria, necessaria per trasportare merci e persone velocemente, ma anche per rompere il mito di Venezia città isola e “vergine”, scollegata dalla terra. Per Padova la ferrovia significherà miseria per le corporazioni dei barcaroli, soprattutto quelli del Portello, e il primo abbattimento delle mura veneziane, anche qui un simbolo perchè non a caso gli austriaci abbatteranno la Porta Codalunga per fare spazio alla stazione ferroviaria, proprio il luogo dove erano conservate le memorie della resistenza padovana all’assedio cinquecentesco di Massimiliano d’Asburgo, antenato dell’imperatore d’Austria. E non a caso Giuseppe Jappelli aveva proposto un progetto per la stazione che conservasse intatte le mura, ma fu trascurato, come gran parte dei progetti che l’architetto presentò per modernizzare la città nella prima metà dell’Ottocento.

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La vecchia Porta Codalunga

Quando al governo austriaco succedette il Regno d’Italia, l’arte a Padova poteva riassumersi in un nome, quello di Pietro Selvatico. Sul conto di quest’uomo si è scritto molto e spesso in modo non troppo lusinghiero, eppure a lui si deve molto, in primo luogo il salvataggio degli affreschi di Giotto, che senza di lui sarebbero finiti in Inghilterra, poi la scoperta di frammenti dimenticati di affreschi giotteschi nella basilica del Santo, ma anche e soprattutto un ruolo di primo piano nella fondazione del Museo Civico e nella costituzione delle sue raccolte, ma anche l’istituzione di una scuola di alto artigianato che dura ancora oggi ed è stata una delle eccellenze cittadine per tanti anni. Sul piano artistico Selvatico ama il Medioevo, cosa non strana per un cultore di Giotto, in pittura è vicino alle posizioni di gruppi come i Nazareni e i Preraffaeliti, che hanno una visione mistico/religiosa della pittura, anche per il nostro il Medioevo, con la sua idea di Universalità è il modello giusto per una nazione che deve formarsi come è l’Italia di quegli anni. Questa predilezione si vedrà anche in architettura, l’arte di cui Selvatico si occupa maggiormente, sia in prima persona, sia attraverso investiture più o meno dirette alla realizzazione di alcuni edifici pubblici come la Loggia Amulea di Eugenio Maestri o il Palazzo delle Debite e il Museo Civico di Camillo Boito. Proprio quest’ultimo è considerato il “pupillo” di Selvatico e soprattutto l’ideatore, negli anni 90 dell’Ottocento, di uno stile “nazionale” che prende le mosse dal “neo-romanico” del suo maestro per gettare le basi di quello che presto, in tutta Europa, sarà chiamato stile liberty.

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Il vecchio Museo Civico al Santo

In linea generale, il liberty può essere considerato come LO stile della modernità, quello che maggiormente rompe con le teorie artistiche (architettoniche) tradizionali, anche per la disponibilità di nuove tecnologie e materiali, come il cemento e il vetro di produzione industriale.

Siamo all’inizio del Ventesimo secolo, un’epoca che per forza di cose non può che percepirsi moderna e dunque vuole rompere con il passato. Succede anche a Padova, proprio nel 1900 viene eletta una nuova giunta comunale, che può essere definita progressista, che succede ad una amministrazione che, per quasi quarant’anni, era stata in mano ai moderati “cavouriani” della Destra Storica. Non è un rivoluzione epocale, si tratta sempre di un gruppo ristretto eletto da pochi aventi diritto, ma questa giunta possiede gli appoggi politici ed economici per attuare progetti di ammodernamento della città che “giravano nell’aria” da anni, in qualche caso da secoli.

Per comodità possiamo dire che Padova entra nel Novecento nel 1903, anno in cui Daniele Donghi realizza il cavalcavia Borgomagno che oltrepassa la linea ferroviaria vicino alla Stazione e apre lo sviluppo cittadino a nord, in un’area che prima non era considerata città. Al cavalcavia è direttamente collegata l’opera “simbolo” della nuova Padova: il rettifilo che dal centro cittadino (piazza Garibaldi) giunge alla Stazione ferroviaria.

E’ proprio qui che vediamo nascere una città nuova dal punto di vista architettonico, in un’impresa che ha come maggior protagonista, per numero di progetti, Gino Peressutti.

Peressutti giunge in città nel 1904, ha appena 21 anni, non è nemmeno laureato, ma è stato allievo di Raimondo D’Aronco il pioniere del liberty italiano e questo basta ai padri gesuiti per affidargli il cantiere del Collegio Universitario dell’Antonianum, la più completa forma architettonica liberty in città e nel repertorio dello stesso Peressutti. Per l’amministrazione comunale di Padova e per i committenti questo stile risulta presto essere “troppo”, troppo moderno, troppo estroso, già in palazzo Venezze, all’angolo di via Trieste con Corso del Popolo, Peressutti, dopo un primo progetto rifiutato dalla commissione cittadina di ornato, si accomoda su uno stile meno eccessivo, più tradizionale, che formalmente può essere definito eclettico. Grazie a questa scelta l’architetto sarà per trent’anni il massimo esponente del rinnovamento cittadino, che lo vedrà declinare i concetti di modernità in modo sempre nuovo, fino ad assumere un linguaggio “romano” nella progettazione di Piazza Spalato (ora Indipendenza), che accompagnerà l’ecclettismo funzionalista del quartiere Vanzo, la modernissima “Città Giardino”.

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Il Collegio Antonianum, come appare oggi

Così, i più notevoli esempi architettonici sul nuovo rettifilo del Corso non portano la firma di Peressutti, ma sono l’albergo Italia, proprio di fronte alla stazione, di Primo Tertulliano Miozzo, il palazzo delle Poste centrali di Alessandro Peretti, capo ufficio tecnico del Comune e autore anche del Foro Boario in Prato della Valle, e soprattutto la sede della Cassa di Risparmio di Daniele Donghi, l’edificio che incarna il cuore della modernità, in quanto gran parte dei progetti urbanistici realizzati in questi anni possono partire proprio grazie ai finanziamenti della Cassa di Risparmio. È così soprattutto per l’altro grande progetto di Daniele Donghi, gli edifici universitari che ospiteranno le ammodernate facoltà di medicina ed ingegneria, divisi fra il corso del Piovego e le vicinanze dell’Ospedale Giustinianeo.

L’altro grande polo di innovazione in stile eclettico/liberty si trova nelle vicinanze della basilica di Sant’Antonio, al cui interno si trova il più significativo cantiere pittorico della città, quello che vede all’opera nel presbiterio e in alcune cappelle attigue allo stesso il decoratore Achille Casanova. Tuttavia è anche l’apertura della via dedicata a Luca Belludi che collega la basilica a Prato della Valle e che termina con la grande mole di Palazzo Sacerdoti, eretta da Augusto Berlese. Si tratta infatti di uno dei più classici esempi di liberty cittadino: il palazzo è infatti caratterizzato dalla grande torre che sporge verso la piazza. Molte ville e villette, soprattutto suburbane, di quest’epoca assumono infatti la forma della casa con torretta a rievocare il grandioso passato medievale della città e a istituire, proprio intorno alla cerchia di mura cinquecentesca appena scavalcata, una seconda barriera “fortificata”.

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Palazzo Sacerdoti in Prato della Valle

Tuttavia l’onda della modernità continuerà a muoversi in senso centripeto lungo tutto il corso del Novecento.

Giovanni Bellini, umano e divino

138sacrPochi pittori rappresentano la propria epoca e il proprio ambiente in modo così caratteristico e pieno come Giovanni Bellini.

Due parole rappresentano immediatamente l’opera pittorica di questo grande artista: luce e oro. Chiunque pensi spiritualmente a Venezia, anche chi la conosce meglio, non può che collegarla mentalmente a questa impressione, la stessa che si ha quando si entra in quel luogo ideale che è la Basilica di San Marco: luce e oro.

Queste due parole descrivono immediatamente l’atmosfera veneziana, come dimostrano anche due delle più antiche testimonianze artistiche della laguna, i mosaici absidali di Torcello e Murano.

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Torcello, Basilica di Santa Maria Assunta, Abside

Queste due immagini della Vergine ammantata di blu su fondo oro sono, secondo Sergio Bettini, fondamentali per capire Venezia, la cui architettura è unica al mondo, perché pensata per una città sull’acqua, in cui la luce non arriva solo da una direzione, ma, riflettendosi sulla laguna, avvolge gli edifici. Il fondo oro dei mosaici veneto-bizantini non è altro che la trasposizione di questa situazione diciamo meteorologica, mentre la Vergine rappresenta al meglio Venezia, o viceversa. La città può considerarsi inviolabile, è protetta da mura che non potranno mai cadere o essere conquistate, cioè le acque del mare. Come Maria è, nella teologia, una creatura, ma diversa e speciale rispetto alle altre, così Venezia fa parte di questo mondo, ma è diversa da tutte le altre città, che sono “incatenate” sulla terra. Petrarca la definisce “mundus alter”, mondo diverso, fa parte di questo mondo, ma in modo assolutamente speciale, e anche la sua storia geopolitica di provincia bizantina in Occidente prima e di potenza occidentale in Oriente poi può essere intesa come un’ulteriore conferma di questo assioma. Come Maria è stata definita “porta del Cielo” (immagine di Giusto de’ Menabuoi), così anche Venezia, per secoli punto privilegiato di partenza per Gerusalemme e per il pellegrinaggio al Santo Sepolcro è un’immensa porta della salvezza.

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Giusto de’ Menabuoi, Battistero del Duomo di Padova, “Maria porta del Cielo”

Proprio per indicare questa costellazione di significati, Giovanni Bellini introduce per la prima volta nella pala di San Giobbe, dipinta nel 1487, un elemento che reinterpreta in chiave moderna la più antica tradizione veneziana, quella bizantina. Bellini infatti decide che le sue scene di pittura sacra devono rappresentare ambienti sacri e costruisce nelle proprie pale un’architettura che collochi le figure in vere e proprie chiese dipinte: e queste chiese lampeggiano di mosaici dorati che avvolgono le figure, in particolare la Vergine, di quella luce che riproduce fedelmente l’ambiente lagunare.

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Giovanni Bellini, Pala di San Giobbe, Gallerie dell’Accademia

D’altra parte la pittura belliniana non è nuova alla spiritualizzazione degli elementi paesaggistici: nella Resurrezione di Cristo che ora si trova alla Pinacoteca di Berlino, egli ambienta la scena, uno dei momenti caratteristici della storia sacra, in un tipico paesaggio veneto, riconoscibile per la scelta cromatica del cielo azzurro che si sposa con il verde della campagna, ma anche per un elemento ben più specifico che non poteva non essere familiare a chi guardava l’opera: sulla destra del quadro si staglia il colle con la rocca di Monselice, uno degli elementi paesaggistici più riconoscibili della Bassa Padovana. Questo elemento non è certamente “solo un contorno” nel quadro, svolge anzi una funzione fondamentale nello stesso: la sua presenza offre allo sguardo dello spettatore una figura verticale il cui scopo è quello di conferire all’immagine un movimento che coincida con il movimento ascensionale di Cristo verso l’alto dei cieli. Un Cristo che ancora una volta possiamo definire “bizantino” o quanto meno arcaico nella sua ieratica frontalità: è una figura che ci comunica subito che si situa al di là di questo mondo e la sua presenza rende sacro il paesaggio circostante, che invece è un paesaggio immediatamente riconoscibile come reale e tangibile. Nella pittura di Giovanni Bellini la sacralità arcaica viene recuperata, ma non è lo specchio di una realtà lontana e irraggiungibile, come poteva essere per l’oro dei mosaici bizantini, è anzi qualcosa che si trova tutto intorno allo spettatore: nella città di Venezia e nelle campagne del Veneto.

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Giovanni Bellini, Resurrezione (1475-79), Berlino, Gemaldegalerie

Giovanni Bellini comincia a firmare le proprie opere quando è quasi trentenne, alla metà degli anni 50 del Quattrocento, il padre Jacopo lo aveva formato nella sua bottega fino ad allora, e lo aveva reso un pittore umanista, come il fratello Gentile e come il “fratello adottivo” Andrea Mantegna, che aveva sposato Nicolosia, sorella di Giovanni. E pittore umanista Bellini si rivela in modo particolare nell’opera che segna il suo ingresso negli anni 60, la Pietà di Brera, in cui possiamo ammirare un Cristo che fa della perfezione fisica del suo corpo il modo per comunicare il raggiungimento della perfezione dell’ideale dell’essere umano, in perfetto parallelo con l’opera di Andrea Mantegna.

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Giovanni Bellini, Pietà, 1460, Milano, Pinacoteca di Brera

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Andrea Mantegna, San Sebastiano, 1459, Vienna, Kunsthistorisches Museum

Il Cristo Morto di Mantegna, dipinto nel 1490, 30 anni dopo la strepitosa Pietà del cognato, rappresenta un altro momento spirituale della storia della pittura in Italia, in esso sono presenti in nuce le ansie spirituali del Cinquecento, condensate nelle figure piangenti, appena accennate, a lato del corpo di Cristo.

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Andrea Mantegna, Cristo Morto, 1490, Milano. Pinacoteca di Brera

Questa inquietudine, che pure sarà fortissima a Venezia nel sedicesimo secolo, non tocca, o meglio sfiora soltanto, Giovanni Bellini il grande pittore dell’oro e della luce, colui che più di ogni altro ha reso tangibile il sogno di rendere Venezia una nuova Costantinopoli, dopo che la prima era caduta in mano ai Turchi nel 1453.

Il pittore e la morte – Caravaggio in Sicilia

Se qualcosa colpisce immediatamente in due dipinti di Caravaggio conservati in Sicilia, la Resurrezione di Lazzaro di Messina e il Seppellimento di santa Lucia di Siracusa, è lo stato delle tele, caratterizzate da un diffuso color terra, che le rende, ad un primo sguardo, difficilmente leggibili, quasi trascurate.

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Caravaggio, Resurrezione di Lazzaro, Messina, Museo Interdisciplinare Regionale

“E’ questo il caso anche della Resurrezione di Lazzaro, proveniente dal Museo Regionale di Messina. Nonostante il dipinto sia stato spesso descritto come in pessime condizioni, non si può definire cattivo il suo stato di conservazione; l’impressione è legata al fatto che la composizione “si vede male”, fattore che ha da sempre condizionato gli interventi di restauro -quattro in quattro secoli- nel tentativo di aumentare la leggibilità delle figure, non comprendendo l’originale tecnica esecutiva caravaggesca. Va comunque evidenziato che il fenomeno dell’alterazione della vernice era talmente accentuato da disturbare ed effettivamente distogliere l’attenzione dalla estrema efficacia della rappresentazione.” Parole prese dal sito dell’Istituto Centrale per il Restauro http://www.icr.beniculturali.it/pagina.cfm?usz=5&uid=67&rid=33. L’impressione dei dipinti siciliani di Caravaggio è qualcosa di fortissimo, non solo da un punto di vista artistico, ma proprio da un punto di vista spirituale.
La vulgata caravaggesca è purtroppo ancora quella del pittore maledetto, dell’uomo sensuale sensualissimo, dedito alle bisbocce, dissoluto, rifiutato dagli ambienti ecclesiastici proprio perchè scapestrato e “sulla cattiva strada”, Roberto Longhi lo ha descritto come un materialista dialettico ante litteram, come un portavoce di un realismo assolutamente non magico, come colui che canta anacronisticamente un riscatto sociale e solo sociale.
Che quest’uomo fosse in mezzo ad una disputa teologica che avrebbe deciso lo sviluppo della chiesa per i secoli a seguire non viene comunemente percepito, che le pennellate del maestro, le sue improvvise sterzate di luce che appaiono sullo sfondo scuro come la pece siano la trasposizione delle preghiere di san Filippo Neri, e di una tradizione che lega personaggi diversi come Giovanni della Croce e Giordano Bruno, non giunge ai più. Del barocco, di cui Caravaggio è tra i padri putativi, conosciamo le paure delle morte di ascendenza gesuitica non le straordinarie geometrie di Borromini. Questa, però, è un’altra storia, almeno parzialmente.
Torniamo a Caravaggio e al suo arrivo in Sicilia. Il maestro giunge nell’isola da condannato a morte, dopo aver offeso il papa e i cavalieri di Malta. Forse ha ucciso un uomo in una disputa di gioco, o forse quella disputa era un primo tentativo di omicidio, non possiamo saperlo esattamente, le due opzioni non cambiano il fatto che Caravaggio arriva in Sicilia da condannato a morte, eppure Marco Minniti, pittore e vecchio amico, lo ospita e gli trova delle commissioni per importanti chiese di Siracusa e Messina. Non il modo migliore per mantenere l’anonimato, ma forse la speranza era quella che i Colonna o il partito borromaico riuscissero ad ottenere la grazia per il pittore.

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Caravaggio, Davide con la testa di Golia, Roma, Galleria Borghese

Eppure il Caravaggio siciliano sembra consapevole che la morte lo aspetta: già aveva lasciato Malta identificandosi nella testa tagliata di Golia eppure l’impressione del dipinto per la chiesa di Santa Lucia a Siracusa, il santuario che commemora il luogo della morte della santa portatrice di luce, è fortissima. Lo sfondo del dipinto non è il classico nero caravaggesco, ma un marrone terreo e quasi disciolto. Si dice che questa scelta cromaticamente strana sia dovuta alla fretta, alla difficoltà di reperire i pigmenti, alla possibilità che non sia stato possibile asciugare bene la pittura o che manchi l’ultima mano di vernice.

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Caravaggio, Seppellimento di Santa Lucia, Siracusa, chiesa di Santa Lucia

Forse, in fondo il dipinto è non finito, manca almeno una parte di braccio della santa e la parte bassa del quadro sembra decisamente non essere stata dipinta, eppure tutto nel quadro ha una sua logica, tutto si tiene, e anche la scelta di lasciare qualcosa di non descritto sembra quasi voluta, o almeno sensata. Il colore uniforme dello sfondo sembra proprio essere quello della terra, che è in fondo la grande protagonista del dipinto. La Santa sta tornando alla terra, si sta quasi sciogliendo in essa, due monumentali lavoratori stanno scavando la fossa in cui verrà deposta, i loro corpi formano quasi una mandorla che abbraccia il corpo senza vita di Lucia. Noi la vediamo così, dal basso, la scena è storia, ricordo, il momento in cui, attraverso la morte della santa, è nata la chiesa siracusana, che secondo la leggenda sarebbe stata la prima fondata da Pietro in terra italiana. Non a caso il corpo morto di Lucia si identifica con quello dipinto anni prima per rappresentare la morte della Vergine.

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Caravaggio, Morte della Vergine, Parigi, Museo del Louvre

In questo funerale dignitoso di Siracusa, celebrato da un prete bambino, la cui stola rossa è l’unico momento di colore del quadro, e benedetto da un vescovo ignoto, confuso tra la folla, privo di volto, c’è la magia di una chiesa semplice e primitiva, uno degli elementi forti della predicazione di Cesare Baronio, erede di san Filippo Neri alla guida degli Oratoriani.
Rimane la scelta “forte” di rappresentare Lucia nel momento del seppellimento, con la gola tagliata in modo evidente (pare che in origine Caravaggio avesse dipinto la testa separata dal corpo per poi correggersi o essere corretto), la scelta operata da un uomo, ricordiamolo, che era un condannato a morte, che in tutti i quadri del suo ultimo periodo ha rappresentato la morte in modo autobiografico. Eppure una morte che chiaramente viene sconfitta anche nei suoi momenti di apparente trionfo.
E’ soprattutto il caso dell’eccezionale Resurrezione di Lazzaro che si trova al Museo Interdisciplinare di Messina e alla quale sono rivolte le parole che si trovano all’inizio di questo articolo. Anche qui Caravaggio cita se stesso, la posa di Cristo è la stessa che si trova nella “Vocazione di Matteo” per la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi a Roma, il gesto di Cristo che chiama a sè un discepolo è uguale, con la mano che si trova in più nella stessa posa di quella di Adamo nella volta michelangiolesca della Sistina.

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Caravaggio, Vocazione di san Matteo, Roma, San Luigi dei Francesi

Eppure questa volta la luce è impossibile, anche per un dipinto caravaggesco, non è il geometrico raggio romano, ma sembra arrivare dal basso, ancora una volta dalla terra, quella stessa terra che si preparava a Siracusa ad accogliere Lucia. La luce scivola morbida intorno al corpo di Gesù, il suo volto è però lasciato in penombra, quasi indistinguibile dallo sfondo, ancora una volta un gioco del “non finito”? Forse, o forse ogni spettatore è chiamato a dare egli stesso un volto a Cristo.
Il centro del quadro è ovviamente Lazzaro, il cui ombelico occupa anzi il centro della tela. L’ombelico, perchè Lazzaro è il primo uomo di una nuova generazione, nato da Cristo, come Adamo era nato dal Padre. E Lazzaro è rappresentato nel momento esatto in cui riprende vita: e la vita riprende dalle mani, che Caravaggio riesce a dipingere in una contrazione, in uno spasmo, il segnale di una vita che ritorna, forse portata nuovamente nel corpo da Maddalena, che letteralmente infonde vita nelle narici del fratello avvicinando il volto al suo in modo tale che sembra trasmettergli il respiro stesso.

Di solito il corpo di Lazzaro puzza, è un elemento che la pittura, da Giotto in poi, ha reso parte dell’iconografia tradizionale, di solito nella scena c’è sempre qualcuno che si copre il naso e la bocca.

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Giotto, Resurrezione di Lazzaro, Padova, Cappella degli Scrovegni

Qui no. In Caravaggio, Maddalena respira nelle narici di Lazzaro, Marta guarda ammirata. un uomo lo sostiene mentre il suo corpo riprende vita, una folla incerta di lavoranti e discepoli, guarda Cristo, si lascia colpire dalla luce, ma soprattutto vede. Un discepolo, di cui vediamo solo la parte alta della testa, sembra alzarsi sulla punta dei piedi per vedere il miracolo. E non per insistere, ma il verbo giusto è proprio vedere, perchè tutti i personaggi sono estremamente consci di ciò che sta accadendo. E non c’è fraintendimento, Lazzaro è proprio morto. Anche lui, come la santa Lucia di Siracusa, sta per essere messo nella terra, uno dei lavoranti ha appena aperto il sepolcro per lui, è avvolto dal sudario e dal sudario cadono delle ossa, che non possono essere che le ossa stesse di Lazzaro. Era morto, ma è tornato alla vita.
Lazzaro, come Lucia, è un’immagine della chiesa, è il simbolo di un inizio capace di vincere nonostante le tenebre circostanti sembrino essere fitte, pesanti come la terra. La poetica di Caravaggio pittore è questa, quella di un cristianesimo che vuole essere umile e spirituale nel momento in cui invece la chiesa si orientava a voler essere (o rimanere) un attore politico, abbracciando la magniloquenza spagnoleggiante del messaggio gesuitico. Quella magniloquenza che negli stessi anni della fuga e della morte di Caravaggio produrrà la lunga contesa dell’Interdetto veneziano, in una storia che sembra lontana, ma non lo è e che probabilmente un’altra volta racconteremo.
Soprattutto però, nel momento in cui dipinge questi ultimi quadri in terra di Sicilia, Caravaggio vuole essere, anzi è, Lucia e Lazzaro, morti e immortali.

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Giuseppe Cilione
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